la Repubblica, 1 dicembre 2016
Quei cinquanta giorni che fecero tramontare la Lazio più bella di sempre
TRA il 2 dicembre 1976 e il 18 gennaio 1977 si è definito per sempre il complesso sentimento della lazialità, la morte di Tommaso Maestrelli e quella di Luciano Re Cecconi hanno dato al tifo biancazzurro l’impronta della sofferenza e del pessimismo, il senso di appartenenza a una fazione sportiva segnata dalla sfortuna, e nobile proprio per questo. L’aquila laziale volteggia anche sulla tragica fine di Paparelli e Sandri, di Nando Viola e Frustalupi, su una storia fatta di molte pagine scure e qualche pagina luminosa. Di sicuro il capitolo più bello, quasi leggendario, è lo scudetto conquistato nel ’74: se lo scorso anno tutti hanno applaudito l’incredibile primato del Leicester di Ranieri, squadretta che contro ogni pronostico ha vinto il campionato inglese, allora bisogna riconoscere che l’avventura della Lazio di Maestrelli fu ancora più strabiliante.
Era una squadra di matti, un gruppo incandescente di calciatori che provenivano dalla serie B o addirittura dalla serie C, eppure si dimostrarono i più forti e si cucirono lo scudetto sulla maglia. Era la Lazio di Chinaglia è il grido di battaglia, di “capolinea” Wilson, di Garlaschelli, il Garrincha del lago di Como, di Re Cecconi angelo biondo, di Nanni e Martini polmoni inesauribili, di Oddi “der Tufello” e di Frustalupi con il riporto da impiegato del catasto, di D’Amico “er regazzino”. Si dice sempre che per fare una squadra vincente servono campioni, spogliatoio unito, seria preparazione atletica, organizzazione societaria impeccabile: ebbene, quella Lazio era esattamente il contrario. Nessun campione celebrato, nessuna amicizia tra i calciatori, allenamenti assurdi, una società poverella. Però c’era Maestrelli, un padre per quella banda di bucanieri, una guida sicura in mezzo alla tempesta. Maestrelli doveva tenere uniti due gruppi che si detestavano, quello di Chinaglia e Wilson e quello di Martini e Re Cecconi, che durante le partitelle infrasettimanali al campo di Tor di Quinto se le davano di santa ragione. Nessuno voleva mai allenarsi, solo giocare, ed erano scintille.
Si narra che i giocatori avessero due spogliatoi diversi, perché le due bande proprio non si sopportavano. Ma la domenica diventavano una squadra compattissima, e guai se un avversario scalciava Chinaglia o Re Cecconi, tutti gli altri intervenivano immediatamente a difendere il compagno. O meglio, più che compagno, camerata. Già, perché in quegli anni Settanta tendenzialmente rossi, la Lazio era una squadra di fascisti. Lo erano per temperamento, per provocazione. Amavano le armi, quasi tutti andavano in ritiro con la pistola in tasca e sforacchiavano i barattoli sul retro dell’albergo per ammazzare la noia. Una volta Petrelli, terzino scartato dalla Roma, sdraiato sul letto spense la luce tirando due rivoltellate al lampadario, perché aveva sonno e non gli andava di alzarsi. Maestrelli doveva placare gli animi, incanalare quel tumulto ribelle, trasformarlo in un progetto vincente. Invitava spesso a cena a casa sua Chinaglia, che aveva un caratteraccio e pretendeva di escludere dalla squadra Martini o Re Cecconi: Maestrelli lo faceva sfogare, lo rassicurava, ma poi la formazione la faceva lui, con tutti i migliori in campo. In qualche modo, la Lazio di quegli anni somigliava all’Olanda, capelli lunghi, sigarette, whisky, anarchia e fantasia, calcio globale, ma in una versione totalmente di destra. Persero il campionato ‘72-73 all’ultima giornata, ma non mollarono e l’anno dopo si imposero su squadre che sembravano molto più attrezzate. Maestrelli, come Scopigno a Cagliari e Bagnoli a Verona, rese possibile l’impossibile: poche parole, quelle giuste, per trasformare la rabbia di quei ragazzi in determinazione feroce. Una domenica la Lazio perdeva in casa contro il Verona una partita che doveva assolutamente vincere: Maestrelli impedì che i giocatori rientrassero negli spogliatoi a lamentarsi, li tenne sul campo, ognuno al suo posto ad attendere gli avversari. E la Lazio stravinse.
Poi Maestrelli si ammalò di cancro al fegato, tornò in panchina magro da far paura, con quel suo sorriso sempre un po’ triste, e il 2 dicembre 1976 morì, diventando per sempre la stella fissa del nuvoloso firmamento laziale. Un mese dopo, Re Cecconi insieme a Ghedin accompagnò un amico profumiere da un orefice a via Nitti, Roma nord. Forse aveva la sciarpa davanti il viso, forse disse per scherzo “questa è una rapina”, o forse, come verificò il processo, non disse proprio niente: comunque l’orefice tirò fuori dal cassetto la pistola, la puntò su Ghedin che fece in tempo ad alzare le mani, quindi la rivolse verso Re Cecconi e sparò. Era “l’angelo biondo”, Re Cecconi, ma nessun dio lo protesse da quel proiettile. Fu trasportato in ospedale, ma non ci fu nulla da fare, la morte non legge i giornali, se ne frega se giochi in Nazionale, ti passa sopra anche se sei giovane e forte. Sono passati quarant’anni da quei giorni drammatici che nessun tifoso dimentica, perché la Lazio piace così, bella e sciagurata, disposta in campo sul lato scuro della Luna.