la Repubblica, 16 novembre 2016
La vendetta del sondaggista. «Io, deriso per aver capito tutto»
NEW YORK «Che devo dire...sono rimasto sorpreso anche io. E poi, per essere onesti fino in fondo, avevamo previsto che vincesse con un margine ancora più ampio». Arie Kapteyn ridacchia. Dalla sua casa di Topanga, Los Angeles, “l’uomo dei sondaggi”, il vecchio professore di economia che ha ridicolizzato i giovani leoni dei polls digitali come Nate Silver (FiveThirtyEight) o Nate Cohn (New York Times) appare piuttosto divertito da quelle che chiama «queste ore di celebrità» e cerca di ragionare sul perché le previsioni di guru, ed esperti vari si siano rivelate sballate nel novanta per cento e oltre dei casi.
«Premesso che abbiamo sbagliato qualcosa anche noi, penso che la differenza l’abbia fatta il metodo che noi della University of Southern California abbiamo usato nel condurre i sondaggi per il Los Angeles Times. È stato un processo lungo, iniziato un anno fa, quando ci siamo resi conto che con mezzi tradizionali come le telefonate e anche attraverso Internet molti elettori non ci avrebbero detto volentieri che volevano votare per Donald Trump». Così Kapteyn e il suo staff hanno scelto, come prima mossa, il metodo più antico. «Abbiamo inviato migliaia di lettere in ogni singola contea degli Stati Uniti, con dentro un questionario e cinque dollari. Chi rispondeva alle domande veniva premiato con altri quindici dollari».
Non c’è nessun tipo di corruzione nel pagare chi risponde a un sondaggio spiega il professore, «perché la gente dedica tempo al sondaggio, si sente più responsabile e accetta di rispondere anche a domande cui al telefono non risponderebbe mai. Così, partendo dalla buona vecchia posta, abbiamo selezionato quelle tre/quattromila persone che per tutto il 2016 sono diventate il nostro campione».
Una volta fatto questo è entrato in scena Internet. «A chi si dichiarava interessato e magari non aveva a disposizione una connessione a banda larga o un computer, abbiamo regalato un tablet e un abbonamento. Perché la seconda cosa che abbiamo capito era che molti pro-Trump non avrebbero mai ammesso pubblicamente la loro scelta, l’avrebbero condivisa solo al ‘riparo’ dell’anonimato garantito da Internet e rispondendo a domande mirate». Che tipo di domande? «Non quella classica, ‘per chi voti’. Abbiamo chiesto loro, con una scala da zero a cento, di ‘autoassegnarsi’ le probabilità che avevano di votare per l’una o per l’altro candidato e poi abbiamo insistito per sapere come avessero votato nel 2012».
Usando il cosiddetto microweighting, le micro-valutazioni che (prima del voto) hanno suscitato critiche e irrisioni per il suo metodo di valutazione, Kapteyn e il suo staff sono stati in grado di «vedere come, nel corso dei mesi, cambiavano atteggiamenti, dubbi e sentimenti verso Trump e Clinton». Una prova? «Chi sceglieva Hillary in maggioranza lo diceva apertamente, per i fan del candidato repubblicano accadeva il contrario. Credo che nei sondaggi classici si sia tenuto poco conto di cosa avevano votato gli elettori quattro anni fa: molti sondaggi, anche tra quelli fatti meglio, non hanno tenuto conto di chi non aveva votato affatto. Noi ci siamo resi conto che chi non aveva votato, o aveva votato Obama, su Hillary aveva diversi dubbi. Dopo mesi di sondaggi una cosa per noi era chiara: l’elettorato era diverso da quello di quattro anni fa. E se non sai chi sono i nuovi elettori – e non mi riferisco solo ai giovani – non sai per chi voteranno».
Per Kapteyn «non esistono sondaggi perfetti», con i mezzi che offre oggi la tecnologia ci vuole il «giusto mix tra numeri ed esseri umani», i ‘Big Data’ sono «molto importanti, ma occorre saperli leggere» e «gli algoritmi da soli non bastano».
Prima dei numeri «occorre trovare il campione giusto, composto da gente che sia rappresentativa di tutto l’elettorato, da chi vive nelle sperdute contee rurali e non ha mai usato un computer ai giovani che vivono collegati in rete 24 ore al giorno ma non usano lo smartphone come un telefono. Facebook o Google pensano di sapere tutto di noi? In molti casi è vero, ma anche loro non raggiungono tutti».
Quanto alle previsioni di esperti e simili il professore scoppia a ridere: «Quelli che pontificano in televisione non ne azzeccano mai una. Il giorno dopo sono capaci di spiegarci perfettamente come è andata, il giorno prima non sanno nulla di più di quanto ne sappiamo io e lei». Il fatto che il sondaggio del team della Southern California fosse l’unico tra i grandi media a dare (con una certa costanza) Trump vittorioso ha procurato a Kapteyn critiche e non solo. «Diciamo che prima del voto non ero molto popolare. Vere e proprie minacce non ne ho avute, ma telefonate, email di derisione, articoli su blog di ogni tipo e anche su qualche giornale serio che mi dicevano di smettere, che stavo sbagliando tutto... di queste cose ne ho avute tante. Per non parlare di chi, anche nel mio ambiente, mi gridava che ero un traditore. Come se fossi io a votare Trump».
Il professor Kapteyn non vuole dire per chi ha votato per una questione di etica professionale: «non sarebbe corretto, devo essere neutrale», ci spiega. Ma alla fine della conversazione si lascia sfuggire una battuta evocativa: «Sa, sono cresciuto in Olanda, mi sento europeo…».