Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  settembre 17 Sabato calendario

L’ultima intervista a Ciampi

Ultimo colloquio con Carlo Azeglio Ciampi, nello studio di Palazzo Giustiniani. Il presidente è seduto in poltrona, le gambe poggiate su uno sgabello. Il viso è gonfio, gli occhi ridotti a una fessura: effetti collaterali, e sempre più visibili, di certe terapie al cortisone. Stenta a parlare e la voce gli esce rauca e bassissima, un sussurro. Si sforza di controllare il tremito del Parkinson che lo mortifica da tempo. Ogni tanto deglutisce, ma molto lentamente, qualche sorso d’acqua. La stanza ha tende pesanti e semichiuse, per non far entrare troppa luce. La scrivania è ingombra di carte. Su un ripiano della biblioteca una foto con papa Wojtyla. A terra c’è una borsa portadocumenti che a un certo punto apre lui stesso, per mostrarmi alcuni appunti. E a tratti sorride, lo sguardo che scintilla, mentre si abbandona – ma senza toni angosciati – a pensieri carichi di presentimenti.
Come va, presidente? Che programmi sta facendo?
«Presto partirò con Franca per la montagna, l’Alpe di Siusi. Rientrerò a Roma ai primi di settembre, quando sarà passata la calura che per me è divenuta insopportabile. Sarò ospite di una residenza dei militari. Il posto è fresco, stupendo, in mezzo ai boschi, non troppo in quota: sui mille metri. La casa al mare, a Santa Severa, l’ho lasciata ai figli: ormai non ci posso più andare, a quest’età. Infatti, la testa funziona ancora, ma per il resto guardi come sono messo... Capisce perché non mi piace farmi vedere?».
Su che cosa le capita di riflettere più spesso, in questo periodo?
«Sulle grandi domande che dovrebbero essere inevitabili per un uomo, laico o religioso che sia. Il che significa, per uno che abbia la mia anagrafe, non fermarsi più alle cosiddette “domande penultime”, quanto andare dritto a quelle “ultime” e definitive. Ho pudore a raccontarlo, ma mi capita sempre più di frequente di ricordare papa Wojtyla, con il quale ho avuto rapporti sfociati in una vera amicizia. Mi invitava a colazione o alla sua messa privata, in Vaticano, anche un paio di volte al mese».
Di che cosa parlavate, tra voi?
«Di tutto, della vita e della fine della vita. Quando cominciò a stare sempre peggio, un giorno mia moglie Franca, con una delle sue uscite, diciamo così, estroverse, gli disse: “Santità, prego spesso per lei”. Mi intromisi subito io, per compensare quella che mi sembrava un’esagerazione: “Santità, io la penso spesso”. E a quel punto fu lui a parlare, con i gesti. Si passò la mano sul cuore, come per farci intendere: “Io vi ho qui dentro”. Poi, al momento di accomiatarmi, aggiunsi: “Santo Padre, abbiamo la stessa età… Se lei dovesse morire prima di me, mi promette che mi verrà incontro, che verrà a prendermi, che non mi lascerà solo quando giungerà la mia ora?».
Sono pensieri molto cupi, che tendono a chiudere l’orizzonte, addirittura a inibire il futuro…
«No, sono pensieri inevitabili. C’è una stagione giusta per tutto: per studiare, per coltivare progetti, per lavorare e per combattere, ma la stagione delle battaglie per me si è conclusa. Conosce l’epistola di San Paolo a Timoteo, che io imparai al liceo dei gesuiti? “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede”. È proprio così che succede, nell’ultima curva dell’esistenza. Cambiano le prospettive, non si ha più la forza di resistere e... viene quasi voglia di lasciarsi andare».
Ma lei ha saputo resistere a tanti momenti di grande difficoltà. Stento a considerarla rassegnata.
«Ha ragione... ma, ripeto, c’è un tempo per ogni cosa. Vede, a metà degli anni Novanta fui colpito dal solito male alla prostata. In pochi giorni si decise l’intervento chirurgico e, una volta uscito dalla sala operatoria, il medico mi confermò la più infausta delle diagnosi. Mi spiegò che si poteva soltanto tentare qualche terapia, per vedere se, e in quale misura, avrebbe funzionato. Propose la chemio o, in alternativa, le radiazioni. “Perché non tutte e due insieme?”, ribattei io. E così fu fatto».
Quando accadeva tutto questo?
«Era la primavera del 1996 e il centrosinistra aveva appena vinto una dura competizione elettorale. Una sera mi telefonò a casa il presidente Scalfaro, affannato. “Carlo, sto per dare l’incarico di governo a Prodi, ma se tu non lo affiancherai come ministro, non ce la potrà fare. So che non stai bene, ma te lo chiedo lo stesso: te la senti di essere della partita?”. Non ci pensai più di tanto, non feci l’amletico. Mi si domandava un servizio, risposi di sì».
Nonostante i suoi guai e nonostante la pesantezza di una simile responsabilità?
«È vero, l’impegno era pesante, perché si trattava di reggere insieme i dicasteri del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica. La mattina, prima di andare al ministero in via XX Settembre, passavo in clinica per le terapie, poi un caffè e via. Mi chiudevo in ufficio fino a sera, a lavorare duro con la mia squadra, avendo davanti la sfida del risanamento dei conti pubblici per l’ingresso nell’euro e i continui viaggi a Bruxelles e nelle altre capitali europee. A volte, non sapendo se nel pomeriggio avrei potuto darmi una pausa per le iniezioni, portavo con me la fiala e facevo arrivare qualcuno dalla farmacia più vicina, in maniera di non perdere tempo...».
Tutto questo non si sapeva...
«Non era il caso di farlo sapere, magari per costruirmi un alone eroico. Ci fu qualche indiscrezione, soprattutto nei primi mesi. Ma il mio stesso attivismo, la mia reazione (che forse dipendeva anche dal carattere livornese) mise a tacere chi, evocando quella malattia, puntava a indicarmi come inabile a qualsiasi progetto pubblico, ad azzopparmi insomma».
Le succede qualche volta di ricordare il periodo del Quirinale?
«Ripenso a tanti diversi periodi della vita. A quello da presidente, certo, che fu bellissimo e impegnativo. Ma anche ad altri tempi lontani, perché in noi vecchi si riaccende la memoria remota. Riaffiorano ricordi dell’infanzia o risonanze di quand’ero studente alla Normale di Pisa e sgobbavo sui libri e scoprivo certe pagine immortali. L’altra sera, ad esempio, mi è tornato in mente un autore che mi segnò molto, il Kant che chiude la “Critica della ragion pratica” con quella famosa presa di coscienza della specificità umana nell’armonia con l’universo e, insomma, della consapevolezza di quanto è giusto e quanto no, che in qualche modo riassume la sua stessa filosofia: “Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”... Ecco, mi vengono in mente cose così, insieme ai volti di tanti compagni di strada che ho perduto».
I volti di chi, per esempio?
«Di Antonio Maccanico, tra gli ultimi. Mi veniva sempre a trovare, qui, nel mio studio, finché ha potuto».
Chi altri incontra o sente?
«Come può capire faccio vita ritiratissima. Leggo le lettere e gli inviti che ancora mi arrivano e detto alle segretarie le risposte. Ricevo qualche amico, come lei, e guardo un po’ la tv, anche se stento a trovare programmi in grado d’interessarmi. E certo, seguo sempre la politica e spero in tante cose per l’Italia... Ma poi, cosa vuole? Sono nonno e bisnonno, quindi mi rende felice soprattutto vedere i miei nipoti che crescono pieni di curiosità ed energia, di voglia di esplorare il mondo».