Corriere della Sera, 5 luglio 2016
Una soluzione possibile per le sofferenze delle banche italiane
La questione delle banche non è (o non è solo) un problema tecnico, da delegare agli addetti ai lavori: è innanzitutto un problema politico e fiscale perché le varie soluzioni possibili hanno effetti molto diversi sulle parti in gioco. Spesso i banchieri confondono i cittadini (e talvolta anche il governo) con aspetti tecnici astrusi allo scopo di offuscare il campo e ottenere ciò che fa loro comodo, a spese dei contribuenti. È importante quindi che i cittadini comprendano bene le carte in tavola.
Per capire che cosa sta succedendo alle banche italiane è utile ricordare ciò che accadde negli Stati Uniti quando scoppiò la crisi finanziaria. Il caso interessante da ricordare è quello del Tarp, il Troubled assets relief program. Nel settembre 2008 il governo americano decise che per far sì che le banche ricominciassero a prestare denaro, e quindi frenare la recessione, fosse necessario liberarle dai mutui immobiliari morosi che avevano in bilancio e impedivano loro di erogare nuovi prestiti. Le banche non potevano semplicemente venderli perché il mercato per questi mutui era scomparso, cioè nessuno era disposto ad acquistarli, indipendentemente dal prezzo. Per quest’operazione il Tesoro di Washington mise sul tavolo 700 miliardi di dollari, una cifra enorme, pari al 4,7% del Pil di allora. Tuttavia, non appena il governo annunciò l’intenzione di acquistare i mutui andati a male con denaro pubblico (cioè di creare una «bad bank»), alcuni economisti dell’università di Chicago osservarono che il piano si sarebbe tradotto in un regalo ai banchieri. Infatti, acquistare i crediti deteriorati ad un prezzo superiore a quello di mercato – significava fare un regalo agli azionisti della banche a carico dei contribuenti.
A quel punto Hank Paulson, il ministro del Tesoro di allora, cambiò strada, varando un Tarp-2. Obbligò le banche più grandi ad emettere nuove azioni che il governo avrebbe acquistato. Col nuovo capitale le banche avrebbero potuto «digerire» i mutui andati a male e ricominciare ad erogare credito. Il capitale pubblico veniva però erogato con regole severe: sarebbe stato il Tesoro a decidere la remunerazione dei manager ed era proibito distribuire dividendi ai vecchi azionisti. Inoltre un rappresentante del governo entrò nei consigli di amministrazione delle banche maggiori. L’emissione di nuove azioni (quelle acquistate dal governo) abbassò il valore di quelle vecchie, con perdite significative per i vecchi azionisti. (Nell’esempio riportato qui accanto le due soluzioni, «bad bank» o ricapitalizzazione hanno effetti molto diversi sul valore delle azioni dei vecchi azionisti. Con la bad bank il loro valore scende da 10 a 4; con la ricapitalizzazione a 2. Diverso è anche il costo per lo Stato, e quindi per i contribuenti).
Le banche e i loro azionisti strillarono, ma non riuscirono a fermare Hank Paulson. Terrorizzate da una presenza così invadente dello Stato alcune si dettero da fare: ad esempio Goldman Sachs trovò rapidamente nuovi azionisti e con quei denari si ricomprò le azioni possedute dal governo riacquistando la libertà.
Il Congressional Budget Office – l’ufficio bipartisan del Congresso di Washington che stima gli effetti delle leggi finanziarie – ha calcolato quanto è costato ai contribuenti il salvataggio delle banche (Report on the troubled asset relief program, marzo 2015).
A fronte di una spesa (per acquistare le azioni) pari a 205 miliardi di dollari, nel dicembre 2015, quando tutte quelle azioni (tranne un piccolo residuo) erano state vendute, il guadagno netto per lo Stato ammontava a 16 miliardi ( cioé un rendimento totale del 7,8 per cento su sette anni.) In altre parole, i contribuenti ci hanno guadagnato.
Alla luce di questa storia si comincia a capire perché da oltre un anno le banche italiane – che come quelle americane nel 2008 oggi sono piene di sofferenze, cioè di crediti morosi – chiedano al governo di creare una scatola pubblica (una cosiddetta «bad bank») nella quale trasferire i loro crediti morosi.
Di per sé la bad bank non è un problema: la chiave è a che prezzo il governo acquisterebbe quelle sofferenze. Se le acquistasse a un prezzo superiore a quello di mercato, farebbe appunto un regalo alle banche, cosi come lo avrebbe fatto il primo Tarp americano poi abbandonato. Qui fortunatamente ci soccorre la Commissione europea. Interventi dello Stato a condizioni diverse da quelle alle quali sarebbe disposto ad intervenire un privato non sono ammesse, in quanto giudicate un ««aiuto di Stato». Lo scorso novembre, quando fallì Banca Etruria, le sue sofferenze vennero valutate circa 20 centesimi per ogni euro: non zero come le banche americane del 2008, ma poco più. Il guaio fu che nel bilancio di Etruria quei crediti erano iscritti ad un valore doppio: 40, non 20 centesimi per ogni euro e la banca non aveva abbastanza capitale per assorbire le perdite che si sarebbero verificate se le avesse vendute al prezzo di mercato, cioè 20. Quindi fallì.
Nella media delle banche italiane le sofferenze sono valutate, come in Banca Etruria, circa 40 centesimi. E molte banche, proprio come Etruria, non hanno abbastanza capitale per svalutarle da 40 a 20. Quindi il governo dovrebbe acquistarle a 40, altrimenti le banche, come Etruria, fallirebbero. Ma, come abbiamo detto, pagarle più di quanto le valuta il mercato, cioè fare un regalo agli azionisti delle banche non è consentito dalle regole europee.
Davvero il valore che il mercato attribuisce alle sofferenze è solo 20 centesimi ? Su questo si sono scatenati in molti. Chi le valuta 20 sono speculatori, hedge funds che vogliono fare un rapido guadagno! Potrebbe anche essere, ma per ora investitori disposti ad acquistarle ad un prezzo migliore non se sono visti. Ecco allora una possibile soluzione. L’idea che circola da qualche giorno è di usare il fondo Atlante. Questo è un fondo in cui alcune banche (le più solide come Intesa-San Paolo) ed alcune compagnie di assicurazione, come Generali, hanno messo circa 4 miliardi usati per salvare Veneto Banca e la Popolare di Vicenza, delle quali Atlante è diventato l’unico padrone. L’idea è di rifinanziare Atlante con una paio di miliardi e poi usarli per acquistare sofferenze pagandole 40 centesimi. Poiché Atlante è un fondo privato, il gioco è fatto. Il giorno dopo lo Stato potrebbe acquistare tutte le sofferenze pagandole 40 – che a quel punto è diventato il prezzo di mercato – e le banche sono salve. Ovviamente il fondo Atlante può fare ciò che vuole e acquistare sofferenze a qualunque prezzo. Ma se lo Stato lo seguisse farebbe un regalo agli azionisti delle banche. Proprio quello che Hank Paulson non fece.
La conclusione è quella di Luigi Zingales sul Sole 24Ore di mercoledì scorso «un intervento sul capitale delle banche è fattibile. L’unico dubbio è se possa essere fatto direttamente dallo Stato invocando la clausola dei problemi sistemici o attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, che è al di fuori del perimetro dello Stato. Se non avviene quindi non è per colpa dell’Europa, ma perché non piace ai banchieri, che vedrebbero azzerarsi il valore delle loro stock option, e alle fondazioni bancarie, i grandi azionisti delle banche, che perderebbero la maggior parte del loro patrimonio».