il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2016
1946, Marco Travaglio racconta come l’Italia diventò una Repubblica (seconda puntata)
[Leggi qui la prima puntata]
L’epopea degli italiani magri e poveri che ricostruiscono l’Italia in quel magico e terribile 1946 diventerà leggenda. Scriverà lo storico Lucio Villari: “Chi ha l’età per ricordare quei mesi durissimi non dimentica facilmente la folla di gente magra, affilata, che si incontrava per le strade, sui treni (spesso vagoni merci adibiti a vetture viaggiatori), nelle file dei negozi…”. E Indro Montanelli, con la freschezza del testimone oculare e del protagonista, racconterà “l’impeto con cui tutti si impegnarono a ricostruire ciò che le bombe avevano distrutto, ma anche il disordine con cui lo fecero, ognuno intento soltanto alle cose proprio e al proprio tornaconto, senza un minimo di programmazione, senza alcun riguardo all’interesse generale, la rapidità e la spregiudicatezza con cui furono aggirati tutti gli impacci e restrizioni imposte dall’amministrazione alleata; il fiorire della borsa nera, che creò una categoria di nuovi ricchi dediti ai lussi più sfrenati in un panorama di macerie; l’epopea della bicicletta, unico mezzo di locomozione sicuro e sottratto alle strettoie ai tesseramenti del combustibile…; le strade rigurgitanti di gente indaffarata a metter in piedi i propri affari, studi e negozi, e una gran voglia di vivere mescolata a un’altrettanto grande ansietà”.
Il latte, razionato, costa 50 lire al litro. I giornali escono ancora in formato-guerra, a due o quattro pagine, e costano 5 lire. Un chilo di porri 20 lire, uno di piselli 34, uno di cipolle 40. I disoccupati, secondo le cifre del ministero, sono oltre un milione e mezzo, i suicidi circa tremila in un anno, gli emigranti 110.286. Gli aiuti dall’estero sono massicci, soprattutto dall’America: l’UNRRA, l’organismo Onu a cui gli Usa contribuiscono per il 79%, riversa sull’Italia per tutto il 1946 la bellezza di 520 milioni di dollari, più 507 milioni in soccorsi di emergenza (cibo, medicine, vestiario). In aggiunta, il governo di Washington invia 134 milioni di dollari in generi di prima necessità.
Ma la ricostruzione è cominciata nell’animo della gente, prima che nei decreti governativi. E l’Italia delle macerie e della fame riesce anche a divertirsi. Dopo due anni di sospensione per la guerra civile, è tornato il campionato di calcio, vinto dal solito Torino dopo un lungo testa a testa con la cugina Juventus. “Per ristrette finanziarie” le squadre genovesi, Andrea Doria e Sampierdarenese, si fondono nella Sampdoria. Riparte anche il Giro d’Italia di ciclismo, “il giro della speranza” come lo definisce il quotidiano cattolico L’Italia: lo vince Gino Bartali del team “Legnano“davanti a Fausto Coppi della “Bianchi”. Il 10 maggio, Eduardo e Titina De Filippo debuttano a Milano con Questi fantasmi e l’indomani Arturo Toscanini inaugura la nuova Scala, ricostruita a tempo di record dopo i bombardamenti del ’43, incantando 3500 spettatori con arie di Rossini, Verdi e Puccini: una poltrona arriva a costare 100 mila lire. Ma la colonna sonora del 1946 è modernissima: il Boogie Woogie importato dagli americani insieme al cibo in scatola e alle bionde Chesterfield. “La Repubblica italiana – ricorderà Oreste Del Buono – ballò tutta una estate. La proibizione del ballo era stata una delle prime disposizioni prese alla nostra sciagurata entrata in guerra. Avevano enormi arretrati da consumare in proposito. Ovunque furono improvvisate piste da ballo. Furono varate balere all’aperto. Erano 8 mila le sale da ballo in funzione”. Nei cinema dominano i film d’importazione: 850, di cui 600 americani. Le pellicole italiane scarseggiano (appena 65, per il 10% degli incassi), anche se sta nascendo una scuola cinematografica tutta nostra: il neorealismo. Il 1946 è l’anno di Paisà di Roberto Rossellini e di Sciuscià di Vittorio De Sica. E, nonostante tutto, quell’estate riesce anche a essere allegra e spensierata: la gente ha una gran voglia di dimenticare. La Stampa, a Ferragosto, informa che 200 mila torinesi sono partiti per le ferie, anche solo per un paio di giorni, vista anche la penuria di benzina (“Ma una volta l’esodo era molto più imponente, ed era di prammatica parlare di città deserta…”). Tutto esaurito anche nelle piscine comunali di Milano e sulle spiagge della Liguria e della Riviera romagnola.
Intanto, partito il re e risolta la controversia costituzionale con il referendum e l’elezione della Costituente, il governo De Gasperi è alle prese con altri problemi altrettanto urgenti: l’amnistia, l’ordine pubblico e la presidenza della Repubblica. Di amnistia si parla da tempo. Avrebbe voluto concederla Umberto II appena divenuto re, in omaggio a una lunga tradizione, ma il governo su pressione delle sinistre non gliel’ha permesso per non legittimare troppo il nuovo sovrano e non avvantaggiarlo in vista del voto. Il ministro Guardasigilli Palmiro Togliatti ha concesso una “mini-amnistia” prima delle elezioni, promettendone un’altra molto più ampia dopo il 2 giugno.
Ed è di parola. Il decreto viene approvato il 21 dello stesso mese, tra mille polemiche e ostruzionismi. Comprende principalmente i crimini “politici” commessi dai fascisti durante il Ventennio e la Repubblica Sociale (esclusi i delitti Matteotti, don Minzoni e Amendola) e le esecuzioni sommarie perpetrate da partigiani “rossi” dopo la fine della guerra civile. A beneficiarne saranno in tutto 50 mila detenuti. Togliatti si ritrova al centro del fuoco incrociato: viene accusato dalla destra di voler salvare i suoi “compagni assassini” e da sinistra di voler ricompensare i voti alla Repubblica di alcuni gruppi neofascisti, secondo un preciso accordo preelettorale. Comunque sia, l’amnistia ha gravi ripercussioni sull’ordine pubblico. Gruppi di ex partigiani infuriati per la scarcerazione di tanti fascisti dissotterrano l’ascia di guerra, cioè le armi nascoste in luoghi segreti all’indomani della Liberazione (negli anni seguenti la polizia sequestrerà loro un arsenale degno di un esercito: 173 cannoni, 719 mortai, 3500 mitragliatrici, 37 mila pistole, 250 mila bombe a mano e 309 radiotrasmittenti). La parola d’ordine è “epurazione”. A Milano spara e uccide la “volante rossa”, una squadraccia di una trentina di uomini, con tanto di vessilli, uniformi e inno che la polizia riuscirà a sgominare solo nel 1949. Anche il Piemonte e il Veneto sono attraversati da un’ondata di violenze. Ma l’epicentro è l’Emilia Romagna, il cosiddetto “triangolo della morte”, dove vengono trucidati “borghesi” e proprietari terrieri. Igino Giordani, direttore del democristiano Il Popolo, scrive il 23 ottobre che nella sola Emilia le vittime di queste azioni criminali sono già 35 mila.
Nell’Italia meridionale invece torna a imperversare il brigantaggio che, facendo leva sul malcontento delle popolazioni in miseria, conquista ogni giorno nuovi proseliti e simpatie. Il ministro dell’Interno Romita, il 20 giugno, offre una taglia di 300 mila lire “a chiunque fornisca esatte notizie che portano alla cattura del bandito Giuliano”. Il quale, per tutta risposta, mette una taglia sulla testa del ministro.
Il 25 giugno è il gran giorno dell’Assemblea Costituente. La Democrazia cristiana, alle elezioni del 2 giugno, ha ottenuto la maggioranza relativa, con il 35,2% dei voti. Il Partito socialista il 20,7, quello comunista il 19. Il 6,8 è andato ai liberali, il 5,3 ai qualunquisti, il 4,4 ai repubblicani, il 3,1 ai monarchici, l’1,8 al Partito d’azione. Presidente dell’Assemblea viene eletto il socialista Giuseppe Saragat. Invece il capo provvisorio dello Stato – ha stabilito De Gasperi – sarà meridionale e monarchico. Meridionale, per bilanciare la presenza di un trentino (lui stesso) e di un piemontese (Saragat) nelle altre due principali cariche istituzionali. Monarchico, per riconciliare definitivamente le due Italie che si sono scontrate il 2 giugno. I socialisti vorrebbero Benedetto Croce, che rifiuta. De Gasperi propone il vecchio liberale Vittorio Emanuele Orlando, che però non piace alle sinistre perché troppo compromesso con la monarchia. Così si ripiega su Enrico De Nicola, l’avvocato napoletano che era presidente della Camera all’avvento del fascismo e poi si era tratto in disparte. Il vecchio notabile si fa pregare per giorni, poi acconsente. Non certo per amor proprio, precisa, ma per il prestigio della Repubblica.
Sul suo nome, il 28 giugno, confluiscono i voti di tutti i partiti, fatta eccezione per i repubblicani (che votano il “loro” Facchinetti) e per i qualunquisti. Questi dirottano polemicamente i loro voti su una baronessa di Caltagirone, Ottavia Penna Buscemi: il segretario Guglielmo Giannini, uomo di teatro prim’ancora che di politica, una specie di incrocio fra Pannella e Grillo ante litteram, spiega di averla scelta “per opporla alla tirannia tra gli arbitri della cosiddetta democrazia” e “in segno di condanna di un mondo politico incancrenito”. De Nicola raggiunge Roma, da Napoli, solo quattro giorni dopo l’elezione, a bordo di una vecchia Fiat 1100 guidata da un cugino. Senza scorte né cerimonie.
Appena eletto e conosciuto il primo presidente della Repubblica, l’Assemblea guidata da Saragat si mette all’opera per dare alla ritrovata democrazia italiana la sua Costituzione. Una commissione di 75 deputati, presieduta da Meuccio Ruini (del partito Democrazia del Lavoro), preparerà il progetto, suddivisa in tre sottocommissioni: una per i diritti dei cittadini, presieduta dal dc Umberto Tupini, una per i temi economico-sociali, presieduta dal socialista Gustavo Ghidini, una per l’ordinamento costituzionale, presieduta dal comunista Umberto Terracini (che sostituirà poi Saragat alla presidenza dell’Assemblea nell’ultima fase). Tutti si ritrovano d’accordo sui principi ispiratori della nuova Carta che sostituirà lo Statuto Albertino: l’antifascismo, la sovranità del popolo, la centralità del Parlamento, la tutela delle minoranze, le libertà e dunque il lavoro, l’indipendenza dei poteri di controllo a cominciare dalla magistratura. Dirà Piero Calamandrei nel 1955 in un famoso discorso agli studenti: “Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione”.
Sono queste radici robuste e insanguinate che consentono a cattolici democratici, socialcomunisti, liberali e rapubblicani-azionisti di fondere insieme nella stessa Carta tutti i filoni cultural-politici del Paese. Ricorderà Giuseppe Dossetti, costituente eletto con la Dc: “È stata la guerra il grande crogiuolo che ha determinato a parer mio in quasi tutti una disposizione degli animi più equa. Che, al di là delle frange estremiste, spesso divergenti od opposte dei costituenti, ha portato alla conclusione di un patto approvato dalla maggioranza del 90% dei membri della Costituente. Un patto che non è stato un qualunque compromesso o una manifestazione ante litteram di consociativismo o un semplice effimero espediente. Ma un solido edificio in cui hanno confluito, al di là dei contrasti politici anche molto aspri e talvolta cruenti, le tre grandi tradizioni: quella liberale, quella cattolica e quella social comunista”. Il premier De Gasperi, pur eletto fra i costituenti, non partecipa quasi mai ai lavori per evitare qualsiasi intromissione del governo (come dice Calamandrei, “quando si scrive la Costituzione, i banchi del governo devono restare vuoti”): prenderà la parola una sola volta, a proposito dei rapporti fra Stato e Chiesa.
L’11 marzo 1947, il costituente-filosofo Benedetto Croce, criticando l’inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione e la mancata previsione di una legge sul divorzio e di una contro il rischio della “partitomania”, intonerà – lui, laico – il “Veni, creator spiritus, Mentes tuorum visita; Accende lumen sensibus; Infunde amorem cordibus! Soprattutto a questi: ai cuori”. Cioè invocherà la discesa dello Spirito Santo a illuminare i costituenti durante la discussione generale e finale. I 75 termineranno i lavori il 12 gennaio 1947 e il 4 marzo inizierà il dibattito in aula, con altri dibattiti accesi e appassionati. Come quello sul ruolo di garanzia del Senato e, dunque, della sua elettività a suffragio universale (al contrario di quello dello Statuto Albertino, tutto composto da senatori nominati, prima dal Re e poi dal Gran Consiglio del Fascismo). Principi che nessuno rimetterà mai più in discussione, almeno fino all’avvento dei ricostituenti Renzi, Boschi e Verdini. Alla fine la Carta sarà approvata il 22 dicembre con 453 Sì e 62 No (quelli del Msi). Entrerà in vigore il 1° gennaio 1948.
Ma torniamo al 1946. Il 2 luglio, un mese dopo le elezioni, s’è dimesso il primo governo De Gasperi. La crisi dura 12 giorni. Troppi, per Pietro Nenni, che annota scandalizzato sul suo Diario: “(Il presidente del Consiglio) ha rischiato di buttarci in una crisi senza fine”, non immaginando quali lungaggini negoziali precederanno i governi nei decenni successivi. De Gasperi dichiara subito: “Farò il governo che l’aritmetica m’impone”, cioè un quadripartito Dc-Psiup-Pci-Pri. In verità l’aritmetica gli consentirebbe anche un bicolore Dc-Psiup (ma Nenni ha fatto sapere che non si può governare contro la destra e i comunisti insieme), o una coalizione di centrodestra con liberali, monarchici e qualunquisti. Ma l’Alcide ritiene che i tempi non siano maturi per rompere il fronte antifascista. Questione di ordine pubblico e di responsabilità. Meglio che a scrivere la Costituzione continuino a collaborare le sinistre: così si sentiranno obbligate a rispettarla.
Le trattative, in quei 12 giorni, si arenano continuamente. Il primo scontro è sulla politica economica: i socialisti chiedono un “piano generale” di controllo della produzione, i comunisti un aumento dei salari per tutti i lavoratori, mentre De Gasperi propone un “programma in difesa delle classi medie” e “della stabilità della moneta”. Alla fine, l’accordo: i lavoratori riceveranno un “premio straordinario della Repubblica”, 3mila lire quelli con famiglia a carico, 1.500 gli altri. De Gasperi la spunta anche sull’Istruzione, dove il Psi reclama un “laico”. Ma il premier ironizza: “Mai pensato di proporre un sacerdote” e, con l’avallo del Pci, nomina il cattolico Guido Gonella.
Nel suo governo De Gasperi, nato il 18 luglio, non c’è più Togliatti, che ha preferito defilarsi per “riservarsi – ha scritto Vittorio Foa – il massimo libertà d’azione, attraverso l’azione di massa e di organizzazioni sindacali”. È il “doppio binario” del Pci di lotta e di governo, metà doppiopetto e metà barricate, a Roma al governo e nelle piazze all’opposizione. Durerà fino al maggio ‘47, quando De Gasperi, stufo della doppiezza togliattiana, deciderà di scaricare le sinistre dal governo.
L’epopea degli italiani magri e poveri che ricostruiscono l’Italia in quel magico e terribile 1946 diventerà leggenda. Scriverà lo storico Lucio Villari: “Chi ha l’età per ricordare quei mesi durissimi non dimentica facilmente la folla di gente magra, affilata, che si incontrava per le strade, sui treni (spesso vagoni merci adibiti a vetture viaggiatori), nelle file dei negozi…”. E Indro Montanelli, con la freschezza del testimone oculare e del protagonista, racconterà “l’impeto con cui tutti si impegnarono a ricostruire ciò che le bombe avevano distrutto, ma anche il disordine con cui lo fecero, ognuno intento soltanto alle cose proprio e al proprio tornaconto, senza un minimo di programmazione, senza alcun riguardo all’interesse generale, la rapidità e la spregiudicatezza con cui furono aggirati tutti gli impacci e restrizioni imposte dall’amministrazione alleata; il fiorire della borsa nera, che creò una categoria di nuovi ricchi dediti ai lussi più sfrenati in un panorama di macerie; l’epopea della bicicletta, unico mezzo di locomozione sicuro e sottratto alle strettoie ai tesseramenti del combustibile…; le strade rigurgitanti di gente indaffarata a metter in piedi i propri affari, studi e negozi, e una gran voglia di vivere mescolata a un’altrettanto grande ansietà”.
Il latte, razionato, costa 50 lire al litro. I giornali escono ancora in formato-guerra, a due o quattro pagine, e costano 5 lire. Un chilo di porri 20 lire, uno di piselli 34, uno di cipolle 40. I disoccupati, secondo le cifre del ministero, sono oltre un milione e mezzo, i suicidi circa tremila in un anno, gli emigranti 110.286. Gli aiuti dall’estero sono massicci, soprattutto dall’America: l’UNRRA, l’organismo Onu a cui gli Usa contribuiscono per il 79%, riversa sull’Italia per tutto il 1946 la bellezza di 520 milioni di dollari, più 507 milioni in soccorsi di emergenza (cibo, medicine, vestiario). In aggiunta, il governo di Washington invia 134 milioni di dollari in generi di prima necessità.
Ma la ricostruzione è cominciata nell’animo della gente, prima che nei decreti governativi. E l’Italia delle macerie e della fame riesce anche a divertirsi. Dopo due anni di sospensione per la guerra civile, è tornato il campionato di calcio, vinto dal solito Torino dopo un lungo testa a testa con la cugina Juventus. “Per ristrette finanziarie” le squadre genovesi, Andrea Doria e Sampierdarenese, si fondono nella Sampdoria. Riparte anche il Giro d’Italia di ciclismo, “il giro della speranza” come lo definisce il quotidiano cattolico L’Italia: lo vince Gino Bartali del team “Legnano“davanti a Fausto Coppi della “Bianchi”. Il 10 maggio, Eduardo e Titina De Filippo debuttano a Milano con Questi fantasmi e l’indomani Arturo Toscanini inaugura la nuova Scala, ricostruita a tempo di record dopo i bombardamenti del ’43, incantando 3500 spettatori con arie di Rossini, Verdi e Puccini: una poltrona arriva a costare 100 mila lire. Ma la colonna sonora del 1946 è modernissima: il Boogie Woogie importato dagli americani insieme al cibo in scatola e alle bionde Chesterfield. “La Repubblica italiana – ricorderà Oreste Del Buono – ballò tutta una estate. La proibizione del ballo era stata una delle prime disposizioni prese alla nostra sciagurata entrata in guerra. Avevano enormi arretrati da consumare in proposito. Ovunque furono improvvisate piste da ballo. Furono varate balere all’aperto. Erano 8 mila le sale da ballo in funzione”. Nei cinema dominano i film d’importazione: 850, di cui 600 americani. Le pellicole italiane scarseggiano (appena 65, per il 10% degli incassi), anche se sta nascendo una scuola cinematografica tutta nostra: il neorealismo. Il 1946 è l’anno di Paisà di Roberto Rossellini e di Sciuscià di Vittorio De Sica. E, nonostante tutto, quell’estate riesce anche a essere allegra e spensierata: la gente ha una gran voglia di dimenticare. La Stampa, a Ferragosto, informa che 200 mila torinesi sono partiti per le ferie, anche solo per un paio di giorni, vista anche la penuria di benzina (“Ma una volta l’esodo era molto più imponente, ed era di prammatica parlare di città deserta…”). Tutto esaurito anche nelle piscine comunali di Milano e sulle spiagge della Liguria e della Riviera romagnola.
Intanto, partito il re e risolta la controversia costituzionale con il referendum e l’elezione della Costituente, il governo De Gasperi è alle prese con altri problemi altrettanto urgenti: l’amnistia, l’ordine pubblico e la presidenza della Repubblica. Di amnistia si parla da tempo. Avrebbe voluto concederla Umberto II appena divenuto re, in omaggio a una lunga tradizione, ma il governo su pressione delle sinistre non gliel’ha permesso per non legittimare troppo il nuovo sovrano e non avvantaggiarlo in vista del voto. Il ministro Guardasigilli Palmiro Togliatti ha concesso una “mini-amnistia” prima delle elezioni, promettendone un’altra molto più ampia dopo il 2 giugno.
Ed è di parola. Il decreto viene approvato il 21 dello stesso mese, tra mille polemiche e ostruzionismi. Comprende principalmente i crimini “politici” commessi dai fascisti durante il Ventennio e la Repubblica Sociale (esclusi i delitti Matteotti, don Minzoni e Amendola) e le esecuzioni sommarie perpetrate da partigiani “rossi” dopo la fine della guerra civile. A beneficiarne saranno in tutto 50 mila detenuti. Togliatti si ritrova al centro del fuoco incrociato: viene accusato dalla destra di voler salvare i suoi “compagni assassini” e da sinistra di voler ricompensare i voti alla Repubblica di alcuni gruppi neofascisti, secondo un preciso accordo preelettorale. Comunque sia, l’amnistia ha gravi ripercussioni sull’ordine pubblico. Gruppi di ex partigiani infuriati per la scarcerazione di tanti fascisti dissotterrano l’ascia di guerra, cioè le armi nascoste in luoghi segreti all’indomani della Liberazione (negli anni seguenti la polizia sequestrerà loro un arsenale degno di un esercito: 173 cannoni, 719 mortai, 3500 mitragliatrici, 37 mila pistole, 250 mila bombe a mano e 309 radiotrasmittenti). La parola d’ordine è “epurazione”. A Milano spara e uccide la “volante rossa”, una squadraccia di una trentina di uomini, con tanto di vessilli, uniformi e inno che la polizia riuscirà a sgominare solo nel 1949. Anche il Piemonte e il Veneto sono attraversati da un’ondata di violenze. Ma l’epicentro è l’Emilia Romagna, il cosiddetto “triangolo della morte”, dove vengono trucidati “borghesi” e proprietari terrieri. Igino Giordani, direttore del democristiano Il Popolo, scrive il 23 ottobre che nella sola Emilia le vittime di queste azioni criminali sono già 35 mila.
Nell’Italia meridionale invece torna a imperversare il brigantaggio che, facendo leva sul malcontento delle popolazioni in miseria, conquista ogni giorno nuovi proseliti e simpatie. Il ministro dell’Interno Romita, il 20 giugno, offre una taglia di 300 mila lire “a chiunque fornisca esatte notizie che portano alla cattura del bandito Giuliano”. Il quale, per tutta risposta, mette una taglia sulla testa del ministro.
Il 25 giugno è il gran giorno dell’Assemblea Costituente. La Democrazia cristiana, alle elezioni del 2 giugno, ha ottenuto la maggioranza relativa, con il 35,2% dei voti. Il Partito socialista il 20,7, quello comunista il 19. Il 6,8 è andato ai liberali, il 5,3 ai qualunquisti, il 4,4 ai repubblicani, il 3,1 ai monarchici, l’1,8 al Partito d’azione. Presidente dell’Assemblea viene eletto il socialista Giuseppe Saragat. Invece il capo provvisorio dello Stato – ha stabilito De Gasperi – sarà meridionale e monarchico. Meridionale, per bilanciare la presenza di un trentino (lui stesso) e di un piemontese (Saragat) nelle altre due principali cariche istituzionali. Monarchico, per riconciliare definitivamente le due Italie che si sono scontrate il 2 giugno. I socialisti vorrebbero Benedetto Croce, che rifiuta. De Gasperi propone il vecchio liberale Vittorio Emanuele Orlando, che però non piace alle sinistre perché troppo compromesso con la monarchia. Così si ripiega su Enrico De Nicola, l’avvocato napoletano che era presidente della Camera all’avvento del fascismo e poi si era tratto in disparte. Il vecchio notabile si fa pregare per giorni, poi acconsente. Non certo per amor proprio, precisa, ma per il prestigio della Repubblica.
Sul suo nome, il 28 giugno, confluiscono i voti di tutti i partiti, fatta eccezione per i repubblicani (che votano il “loro” Facchinetti) e per i qualunquisti. Questi dirottano polemicamente i loro voti su una baronessa di Caltagirone, Ottavia Penna Buscemi: il segretario Guglielmo Giannini, uomo di teatro prim’ancora che di politica, una specie di incrocio fra Pannella e Grillo ante litteram, spiega di averla scelta “per opporla alla tirannia tra gli arbitri della cosiddetta democrazia” e “in segno di condanna di un mondo politico incancrenito”. De Nicola raggiunge Roma, da Napoli, solo quattro giorni dopo l’elezione, a bordo di una vecchia Fiat 1100 guidata da un cugino. Senza scorte né cerimonie.
Appena eletto e conosciuto il primo presidente della Repubblica, l’Assemblea guidata da Saragat si mette all’opera per dare alla ritrovata democrazia italiana la sua Costituzione. Una commissione di 75 deputati, presieduta da Meuccio Ruini (del partito Democrazia del Lavoro), preparerà il progetto, suddivisa in tre sottocommissioni: una per i diritti dei cittadini, presieduta dal dc Umberto Tupini, una per i temi economico-sociali, presieduta dal socialista Gustavo Ghidini, una per l’ordinamento costituzionale, presieduta dal comunista Umberto Terracini (che sostituirà poi Saragat alla presidenza dell’Assemblea nell’ultima fase). Tutti si ritrovano d’accordo sui principi ispiratori della nuova Carta che sostituirà lo Statuto Albertino: l’antifascismo, la sovranità del popolo, la centralità del Parlamento, la tutela delle minoranze, le libertà e dunque il lavoro, l’indipendenza dei poteri di controllo a cominciare dalla magistratura. Dirà Piero Calamandrei nel 1955 in un famoso discorso agli studenti: “Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione”.
Sono queste radici robuste e insanguinate che consentono a cattolici democratici, socialcomunisti, liberali e rapubblicani-azionisti di fondere insieme nella stessa Carta tutti i filoni cultural-politici del Paese. Ricorderà Giuseppe Dossetti, costituente eletto con la Dc: “È stata la guerra il grande crogiuolo che ha determinato a parer mio in quasi tutti una disposizione degli animi più equa. Che, al di là delle frange estremiste, spesso divergenti od opposte dei costituenti, ha portato alla conclusione di un patto approvato dalla maggioranza del 90% dei membri della Costituente. Un patto che non è stato un qualunque compromesso o una manifestazione ante litteram di consociativismo o un semplice effimero espediente. Ma un solido edificio in cui hanno confluito, al di là dei contrasti politici anche molto aspri e talvolta cruenti, le tre grandi tradizioni: quella liberale, quella cattolica e quella social comunista”. Il premier De Gasperi, pur eletto fra i costituenti, non partecipa quasi mai ai lavori per evitare qualsiasi intromissione del governo (come dice Calamandrei, “quando si scrive la Costituzione, i banchi del governo devono restare vuoti”): prenderà la parola una sola volta, a proposito dei rapporti fra Stato e Chiesa.
L’11 marzo 1947, il costituente-filosofo Benedetto Croce, criticando l’inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione e la mancata previsione di una legge sul divorzio e di una contro il rischio della “partitomania”, intonerà – lui, laico – il “Veni, creator spiritus, Mentes tuorum visita; Accende lumen sensibus; Infunde amorem cordibus! Soprattutto a questi: ai cuori”. Cioè invocherà la discesa dello Spirito Santo a illuminare i costituenti durante la discussione generale e finale. I 75 termineranno i lavori il 12 gennaio 1947 e il 4 marzo inizierà il dibattito in aula, con altri dibattiti accesi e appassionati. Come quello sul ruolo di garanzia del Senato e, dunque, della sua elettività a suffragio universale (al contrario di quello dello Statuto Albertino, tutto composto da senatori nominati, prima dal Re e poi dal Gran Consiglio del Fascismo). Principi che nessuno rimetterà mai più in discussione, almeno fino all’avvento dei ricostituenti Renzi, Boschi e Verdini. Alla fine la Carta sarà approvata il 22 dicembre con 453 Sì e 62 No (quelli del Msi). Entrerà in vigore il 1° gennaio 1948.
Ma torniamo al 1946. Il 2 luglio, un mese dopo le elezioni, s’è dimesso il primo governo De Gasperi. La crisi dura 12 giorni. Troppi, per Pietro Nenni, che annota scandalizzato sul suo Diario: “(Il presidente del Consiglio) ha rischiato di buttarci in una crisi senza fine”, non immaginando quali lungaggini negoziali precederanno i governi nei decenni successivi. De Gasperi dichiara subito: “Farò il governo che l’aritmetica m’impone”, cioè un quadripartito Dc-Psiup-Pci-Pri. In verità l’aritmetica gli consentirebbe anche un bicolore Dc-Psiup (ma Nenni ha fatto sapere che non si può governare contro la destra e i comunisti insieme), o una coalizione di centrodestra con liberali, monarchici e qualunquisti. Ma l’Alcide ritiene che i tempi non siano maturi per rompere il fronte antifascista. Questione di ordine pubblico e di responsabilità. Meglio che a scrivere la Costituzione continuino a collaborare le sinistre: così si sentiranno obbligate a rispettarla.
Le trattative, in quei 12 giorni, si arenano continuamente. Il primo scontro è sulla politica economica: i socialisti chiedono un “piano generale” di controllo della produzione, i comunisti un aumento dei salari per tutti i lavoratori, mentre De Gasperi propone un “programma in difesa delle classi medie” e “della stabilità della moneta”. Alla fine, l’accordo: i lavoratori riceveranno un “premio straordinario della Repubblica”, 3mila lire quelli con famiglia a carico, 1.500 gli altri. De Gasperi la spunta anche sull’Istruzione, dove il Psi reclama un “laico”. Ma il premier ironizza: “Mai pensato di proporre un sacerdote” e, con l’avallo del Pci, nomina il cattolico Guido Gonella.
Nel suo governo De Gasperi, nato il 18 luglio, non c’è più Togliatti, che ha preferito defilarsi per “riservarsi – ha scritto Vittorio Foa – il massimo libertà d’azione, attraverso l’azione di massa e di organizzazioni sindacali”. È il “doppio binario” del Pci di lotta e di governo, metà doppiopetto e metà barricate, a Roma al governo e nelle piazze all’opposizione. Durerà fino al maggio ‘47, quando De Gasperi, stufo della doppiezza togliattiana, deciderà di scaricare le sinistre dal governo.