la Repubblica, 29 maggio 2016
Così il fondatore di Repubblica votò monarchia. Eugenio Scalfari ricorda quel 2 giugno 1946
«Perché ho votato per la monarchia? Ero liberale e crociano. E Croce riteneva che soltanto la monarchia avrebbe potuto arginare la pressione del Vaticano». Era già maggiorenne Eugenio Scalfari il 2 giugno del 1946. Ventidue anni, neolaureato in Giurisprudenza, appassionato lettore del filosofo napoletano. Quel referendum segnò la storia d’Italia ma anche la sua storia personale, l’ingresso nell’età adulta che l’avrebbe condotto nel cuore della vicenda repubblicana. Seduto sotto un prezioso dipinto veneziano, nella luce della sua casa affacciata sui tetti di Roma, s’abbandona a un racconto dove la vita privata scivola fatalmente in quella pubblica, e viceversa.
Così il futuro fondatore di “Repubblica” scelse la monarchia.
«Croce era convinto che l’istituto monarchico offrisse maggiori garanzie di laicità rispetto alla repubblica guidata dalla Democrazia cristiana. Per molti cattolici l’Italia era “il giardino del Vaticano».
Temevate l’egemonia scudocrociata?
«Sì, ne discussi anche con Italo Calvino, che votò per la repubblica. Lo ricordo bene perché fu l’ultima lettera, quella che chiuse il nostro scambio epistolare».
Fu questo voto divergente a intiepidire i rapporti?
«No, più semplicemente si era esaurita l’intimità adolescenziale.
Eravamo ormai due persone adulte con una diversa esperienza alle spalle: Italo aveva fatto la guerra partigiana in Liguria; io ero rimasto a Roma dove la resistenza era quella dei Gap, agguerrite formazioni comuniste a cui ero estraneo. Così per ripararmi dai tedeschi avevo trovato rifugio dai gesuiti, alla Casa del Sacro Cuore in via dei Penitenzieri. Rimasi lì dal marzo alla fine di aprile del 1944: un mese e mezzo di esercizi spirituali durissimi, fatti in ginocchio con le mani davanti agli occhi».
È per questo che poi avresti trovato un’intesa
con papa Francesco?
«Ma no, io mi ero fermato dai gesuiti per ragioni di necessità. Quando l’ho raccontato al papa, è rimasto sorpreso dalla durata degli esercizi. “Ma le saranno venuti i ginocchi della lavandaia”, mi ha detto sorridente. “Santità, peggio: in quelle condizioni, a terra e con gli occhi mortificati, a molti di noi venivano i cattivi pensieri”. “Beh, il minimo che potesse capitare”».
Insomma, il tuo vissuto era diverso da quello di Calvino.
«Sì, ma non eravamo distanti. Anche Italo temeva una preponderanza democristiana, ma era convinto che il quadro politico si sarebbe evoluto in meglio. Però non riuscì a convincermi».
Anche Luigi Einaudi votò a favore della monarchia per poi diventare due anni dopo presidente della Repubblica.
«Era un liberale, come lo ero io. In realtà eravamo repubblicani. E infatti subito dopo il voto mi sentii lealmente schierato con la repubblica».
Ma non fu subito chiaro a chi appartenesse la vittoria.
«In un primo momento circolò la voce che avessero vinto i monarchici: al Sud il loro voto era stato di gran lunga prevalente. C’era una grande confusione, anche il timore che la votazione non si fosse svolta in modo regolare».
Hai mai creduto all’ipotesi dei brogli orditi per favorire la repubblica?
«Mah, il sospetto fu smentito con prove».
Un “miracolo della ragione”, così Piero Calamandrei accolse la vittoria repubblicana. Fece notare la novità storica: non era mai avvenuto che una repubblica fosse proclamata per libera scelta di un popolo mentre era sul trono un re.
«Sì, aveva ragione. Devo dire che io mi trovavo in una condizione molto strana. In fondo mi consideravo anche io un miracolato. E a salvarmi, tre anni prima, era stato il vicesegretario del partito nazionale fascista. Nell’inverno del 1943 ero ancora fascista, come la massima parte dei miei coetanei. Ed ero contento di esserlo, tra mitografie imperiali, la divisa littoria che piaceva alle ragazze, il lavoro giornalistico su Roma fascista. Finché fui cacciato dal Guf per un articolo in cui denunciavo una speculazione dei gerarchi. Se Carlo Scorza non mi avesse espulso, avrei vissuto il postfascismo da fascista».
Avresti potuto scoprire il tuo antifascismo in altro modo.
«Fu dopo la cacciata dal Guf che cominciai a gravitare negli ambienti più illuminati di Giuseppe Bottai, fucina del dissenso per molti antifascisti».
Ti ho chiesto del voto referendario. Ma com’era l’Italia del dopoguerra?
«Un paese massacrato che però voleva dimenticare le ferite della guerra. Per rilanciare il turismo il governo consentì l’apertura di case da gioco. L’organizzazione di molte sedi dipendeva da mio padre, così gli proposi di occuparmene. “Sei matto?”. Alla fine riuscii a convincerlo. E nel giugno del 1946 ottenni il mio primo lavoro: direttore amministrativo del casinò di Chianciano. Grande divertimento, due smoking con giacca nera e bianca. E anche il dinner jacket che mi faceva sentire una specie di Cary Grant».
Durò solo quattro mesi e poi la tua vita sarebbe stata molto diversa. Se dovessi scegliere un volto per illustrare una tua storia della repubblica di questi settant’anni?
«Domanda imbarazzante. Però non mi sottraggo: i busti di Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti».
Il simbolo più alto del riformismo italiano. Ma è vero che il primo governo di centrosinistra ebbe vita nel salotto di casa tua?
«Non esageriamo. Però è vero che nel 1963, agli albori di quella nuova stagione, ospitai una sera a cena Riccardo Lombardi, mio carissimo amico, e Guido Carli, allora governatore della Banca d’Italia. Lombardi era stato incaricato da Nenni, vicepresidente del consiglio, di preparare le grandi riforme. Così venne a casa per sottoporre a Carli alcune di quelle proposte – la nazionalizzazione dell’industria elettrica, la riforma dei suoli urbani e la nominatività dei titoli – ma ricevette un sacco di critiche, specie sulle due ultime questioni. Lombardi era arrivato da noi molto prima di Carli: non riusciva a camminare perché gli si era rotta una stringa delle scarpe. Quindi la nostra prima preoccupazione fu risolvere il problema dei lacci».
Poi quella stagione riformista tramontò. Qual è stata l’altra grande occasione mancata della storia repubblicana?
«La grande riforma che aveva in mente Moro: rifondare lo Stato con l’indispensabile appoggio del partito comunista. I colpi di mitra dei brigatisti glielo impedirono. Pochi giorni prima del sequestro mi aveva mandato a chiamare. Non ci sentivamo da dieci anni perché lui mi aveva fatto condannare ingiustamente al processo per la campagna dell’Espresso contro il golpe del generale De Lorenzo. Ma fu un colloquio molto denso. E io ne avrei pubblicato il resoconto dopo la sua morte».
Con gli inquilini del Quirinale hai avuto rapporti alterni, molto polemici – Segni e Leone – o molto amichevoli, ad esempio con Scalfaro, Ciampi e l’attuale presidente Mattarella. Con chi hai avuto maggiore intimità?
«A Pertini mi legava un’amicizia perfino imbarazzante, che il presidente ostentava senza reticenza. Interveniva per telefono anche alle riunioni mattutine di Repubblica, e la sua voce energica portava allegria. Con Francesco Cossiga invece era finita malissimo. Quando era presidente del Consiglio, ogni mercoledì mattina, avevamo l’abitudine di fare la prima colazione insieme. E l’amicizia durò anche al Quirinale, finché cominciò a togliersi i famosi “sassolini dalla scarpa”. Dopo le due prime esternazioni, gli chiesi di essere ricevuto con la massima urgenza. “Non puoi smantellare i principi del patto costituzionale, tu sei il garante della carta”. E lui non volle più vedermi. Soffriva di ciclotimia, psichicamente fragile».
E il rapporto con Giorgio Napolitano?
«Nel corso della sua presidenza l’ho sempre sostenuto, ma non quando ha tollerato in silenzio la pugnalata di Renzi contro Letta. Tra noi c’è un rapporto di amicizia, che non comporta essere d’accordo su tutto: sull’attuale riforma costituzionale abbiamo pareri molto diversi».
Direttore, un’ultima domanda azzardata. Ma non è che nella scelta del nome di “Repubblica” per il tuo giornale abbia inciso anche il desiderio inconsapevole di espiare il voto monarchico di trent’anni prima?
«Ma no, me l’ero scordato del tutto. Scelsi il nome di Repubblica perché volevo dare al giornale un carattere politico e nazionale. Il voto monarchico non era stato frutto di passione. Ero in realtà un repubblicano, e lo sarei ridiventato subito dopo».