Libero, 23 maggio 2016
Tra gli insospettabili nostalgici del Re ci sono Sgarbi e Fisichella. In passato, c’erano anche Michelangeli, Visconti, i fratelli De Filippo e Pannella. Parola Alessandro Sacchi, il presidente dell’Unione Monarchica che vorrebbe Amedeo D’Aosta sovrano
«Scusate il disturbo. Mi fa accendere?», domanda una signora bionda, vestita sportivamente, tenendo in mano una sigaretta spenta. «Perbacco, ci mancherebbe altro! Lei mi onora…», le risponde con signorile accento napoletano Alessandro Sacchi, già a sua volta intento a fumare mentre siede, in compagnia del sottoscritto, a un tavolo all’aperto di un ristorante nelle immediate vicinanze degli studi Rai di Saxa Rubra. Felicemente sovrappeso, Alessandro Sacchi, avvocato civilista, è risorgimentale non solo nell’aspetto, con il suo curato pizzetto, ma nell’eloquio forbito e nei modi squisiti. Lui lo afferma senza mezzi termini, del resto, che il Risorgimento resta il momento più alto della storia d’Italia. Né ci si potrebbe aspettare niente di diverso da chi, dal 2012 (Sacchi aveva allora 48 anni), ricopre la carica di presidente nazionale dell’UMI, l’Unione Monarchica Italiana. La cosa bizzarra, semmai, in tempi di diffusa revanche neoborbonica, è che un napoletano doc come lui veneri in questo modo i Savoia.
Che ne pensa, Sacchi, dei fortunati saggi revisionisti di Pino Aprile, a cominciare dal best seller “Terroni”?
«Penso che siano stati scritti da uno che non ha letto ciò che avrebbe dovuto leggere».
Per esempio?
«”Le ricordanze della mia vita” del patriota napoletano Luigi Settembrini, testo composto nell’arco di vari anni in cui si racconta l’esperienza del carcere duro vissuta dall’autore, per motivi ideologici, sotto i Borbone. Settembrini era stato condannato a morte, pena poi commutata in ergastolo. Ma nessuno tra gli intellettuali meridionali del tempo ebbe dubbi su come schierarsi: da Carlo Poerio a Paolo Emilio Imbriani, erano tutti per i Savoia».
Come si spiega il successo di questo filone che mira a rivalutare il periodo borbonico?
«La gente è in media poco informata, non legge, quindi ha scarsi mezzi per difendersi dalle mistificazioni. E rivolgersi alla pancia delle persone è un gioco facile».
È falso che Napoli, durante il regno borbonico, sia stata una delle più importanti capitali europee?
«Napoli era una città splendente là dove splendeva. Il punto è che, a splendere, era solo una sua parte alquanto ridotta. È senz’altro vero, come viene sempre ricordato, che la prima ferrovia d’Europa è stata il tratto Napoli-Portici, così come è vero che il primo veliero a vapore che abbia solcato il Mediterraneo sia uscito dai regi cantieri di Castellammare di Stabia, però il 17 marzo 1861, data della proclamazione del Regno d’Italia, in quella che era stata fino al giorno prima la parte continentale del Regno delle Due Sicilie c’erano 99 chilometri di ferrovie. Nello stesso momento, nel Regno di Sardegna, ce n’erano quasi mille».
Non è che in seguito, nel Meridione, le cose siano migliorate chissà quanto.
«È indubbio che durante la Repubblica abbiamo avuto una classe politica molto poco attenta. Solo Nusco, grazie a De Mita, è sempre sembrata Zurigo».
Sabato prossimo, a partire dalle 11.30, l’UMI organizza a Roma, presso l’Hotel Massimo D’Azeglio (Via Cavour n. 18), una manifestazione dal titolo “70 anni di Repubblica: mandiamola in pensione! È viva la Monarchia”. Quanta gente prevede partecipi?
«Spero molta. Sarà una contro-celebrazione della ricorrenza indicata nel titolo. Oltre a me interverranno, fra gli altri, l’avvocato Gustavo Pansini, professore emerito di Scienze Giuridiche, e un astrofisico di fama internazionale come Giuseppe Basini. Il tutto alla presenza dei principi Amedeo e Silvia di Savoia. Si tenga presente che gli iscritti all’UMI, che è stata fondata nel 1944, sono in numero di ben 70.000. Solo che se io organizzo un evento a cui prendono parte, come è più volte capitato, mille individui, nessuno ne parla; se la Lipu, beninteso rispettabilissima e benemerita, ne fa uno con cinquanta persone ha buone probabilità di godere di tre minuti di telegiornale».
Fonderete un partito?
«Certamente no, non saremo mai un partito. La Monarchia rappresenta tutti, un partito rappresenta una parte. Monarchia e partiti fanno a pugni. È quanto non capì Alfredo Covelli quando, nel 1946, fondò il Partito Nazionale Monarchico: pensava di poter contare sui voti di quegli oltre dieci milioni di italiani che al referendum scelsero la Monarchia, ma così non fu».
Chi aveva davvero vinto il referendum del 1946?
«Con sicurezza non potremo mai saperlo, ma non è affatto irragionevole ritenere che avesse vinto la Monarchia e che i risultati siano stati “aggiustati” a favore della Repubblica. Esiste una lettera scritta di suo pugno da De Gasperi al ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, nella quale il presidente del Consiglio afferma: “Rebus sic stantibus, non si può concludere che abbia vinto la Repubblica”. La missiva è datata 4 giugno 1946».
Senza divenire un partito, quali obiettivi si prefigge l’UMI?
«Io credo che oggi l’abrogazione dell’articolo 139 della Costituzione sia alla nostra portata. È l’articolo secondo cui la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione. Ma questo in una democrazia parlamentare non va bene, perché un popolo deve poter scegliere le proprie istituzioni. Nulla è per sempre e la Repubblica non può concepirsi perfetta e immutabile. L’Italia peraltro ha perdonato tutti: Mussolini riposa a Predappio e nessun brigatista è più in carcere. Solo ai monarchici è stato inflitto un interdetto che si pretende perenne».
L’idea della successione dinastica confligge con i principi della democrazia.
«I pregi dell’ereditarietà non sono inferiori ai difetti. Innanzi tutto un re palesemente inadeguato viene escluso dalla successione. In secondo luogo chi è destinato alla successione viene educato al ruolo di regnante fin da piccolissimo: si tratta di persone addestrate a questo, che di solito hanno frequentato l’accademia militare e parlano sei o sette lingue».
Ma quali sarebbero i vantaggi del sistema monarchico?
«Non bisogna pensare alla Monarchia com’è stata in Italia fino al 1946, ma alle attuali monarchie parlamentari europee, a mio parere le migliori del mondo. Oltre ai tre poteri dello Stato individuati da Montesquieu, esiste il potere arbitrale, che non deve avere colore: se l’arbitro ha simpatia per una delle squadre o, peggio, ha militato in una di esse (ogni riferimento al nostro penultimo presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, non è casuale) come può essere terzo?».
Uno dei problemi maggiori della famiglia reale italiana è che i suoi membri, da Vittorio Emanuele al figlio Emanuele Filiberto, non godono di una gran reputazione (e non fanno molto per migliorarla).
«Noi sosteniamo Amedeo d’Aosta, non foss’altro perché è lui il legittimo erede al trono. Umberto II, infatti, non diede mai il suo consenso a Vittorio Emanuele affinché egli, come poi avvenne, sposasse Marina Doria, e questo ha trasferito su Amedeo ogni pretesa successoria. Poi il gossip, che è una forma di autodifesa della Repubblica, ha interesse a concentrare l’attenzione sulle discutibili prodezze di Vittorio Emanuele o sulle performance televisive di Emanuele Filiberto. E nessuno, o quasi, sa che Silvia, duchessa d’Aosta, è ufficiale della Croce Rossa e ha operato in zone di guerra come l’Afghanistan e il Kosovo, o che Aymone, marito della principessa Olga di Grecia, è il capo della Pirelli per la Russia e tutte le ex repubbliche sovietiche».
Della fuga a Pescara di Vittorio Emanuele III cosa pensa?
«Mi domando come si possa ancora rivolgere una simile accusa al re. Una fuga dall’Italia in Italia? Che fuga è un semplice spostamento all’interno del territorio nazionale? Il re di Grecia e il re del Belgio (quest’ultimo ancora al suo posto), loro sì, sono fuggiti a Londra. Non Vittorio Emanuele III. E, dopo avere svuotato il museo di Capodimonte, fuggirono i Borbone, portandosi dietro la cassa dello Stato».
Qualche monarchico insospettabile?
«Ci sono membri dell’attuale governo che hanno appeso in casa il ritratto del re».
Chi?
«Non lo posso dire. Posso però garantire che la lista dei filo-monarchici italiani annovera Vittorio Sgarbi e Domenico Fisichella. E, in passato, sono stati monarchici il pianista Benedetti Michelangeli, Luchino Visconti e i fratelli De Filippo».
Visconti e i De Filippo facevano i comunisti.
«In Italia tutti tengono famiglia, diciamo così».
Altri nomi?
«Padre Pio. E poi Marco Pannella, che ero andato a trovare nella sua abitazione romana non molto tempo prima che morisse. Veniva a tutte le mie manifestazioni e custodiva in casa la bandiera sabauda».