il Giornale, 18 maggio 2016
Piede umano e cervello da scimmia. I segreti dell’Homo naledi raccontati dal paleoantropologo Damiano Marchi
Di sé, Damiano Marchi dice: «Amo tutte le ossa». È un paleoantropologo. La sua specialità sono «gli arti inferiori, femore e tibia e fibula», e questa passione lo ha portato lontano, nello spazio e nel tempo: in Sudafrica, ad analizzare i fossili ritrovati nelle caverne di Rising Star, che poi si sarebbero rivelati i resti di una specie nuova: Homo naledi, l’«uomo stella» in lingua locale, il possibile «anello mancante» nell’evoluzione della nostra specie. «È un termine che non si usa più, però in effetti Homo naledi potrebbe essere quello che si pensava l’anello mancante: diciamo che è quello che ci si aspetterebbe dalla prima specie del genere Homo evoluta dall’australopiteco». Marchi, che oggi insegna antropologia all’università di Pisa, è stato («e sono a tutt’oggi») l’unico italiano di quell’impresa, che ha visto insieme scienziati e studiosi da tutto il mondo, coordinati dal paleoantropologo Lee Berger, e che ora racconta in un libro, Il mistero di Homo naledi (Mondadori, pagg. 168, euro 19).
Come è finito in Sudafrica?
«Avevo già incontrato Lee Berger quando ero in Sudafrica a lavorare, fra il 2011 e il 2012. Sapevo di questa spedizione in una caverna appena scoperta, così ho mandato il curriculum. C’era una chiamata internazionale».
Una chiamata fra esperti di paleoantropologia?
«Un appello unico: nessuno si è mai sognato di dividere i fossili con qualcun altro... Di solito si tengono segreti».
Quanti eravate in tutto?
«Un superteam di trenta studiosi fissi, in totale cinquanta. Un’occasione unica, perché i fossili erano tantissimi: di solito li conti sulla punta delle dita, invece lì ce n’erano 1.500... E si continua a scavare, in quella caverna isolata: siamo a quasi duemila».
È un luogo difficile da raggiungere?
«Da fuori, la caverna di Rising Star appare come una discesa nel terreno. Per entrare nella camera dei fossili c’è un anfratto piccolissimo: servono persone magre e matte...»
Matte?
«Ti cali dall’alto per dieci metri. Ci vuole almeno mezz’ora, i cunicoli sono così stretti che devi trattenere il respiro. A farlo c’erano sei donne, reclutate con un annuncio su Facebook».
E quelle mille e cinquecento ossa che cosa dicono?
«Che ci trovavamo di fronte a una specie del genere Homo, quella a cui apparteniamo noi; ma estremamente diversa da come si pensasse possibile».
In che senso?
«C’è l’adattamento del piede e dell’arto inferiore per la posizione eretta e la camminata al suolo, con una falcata simile alla nostra, ma il cervello è piccolo come quello di un gorilla; e gli arti superiori, in particolare le mani e la spalla, indicano che Homo naledi era capace di arrampicarsi sugli alberi».
E perché è particolare?
«Perché noi antropologi pensavamo che queste capacità non potessero essere associate. Invece Homo naledi cambia il nostro punto di vista».
Quindi è qualcosa di nuovo?
«È una chimera, che pensavamo non esistesse. E questo cambia la nostra visione delle dinamiche evolutive che hanno portato al genere Homo. Ci dice che il passaggio dagli australopitechi antichi, Lucy per intenderci, a Homo non è stato così netto, non c’è stato salto, ma è stato più graduale, più complicato. Non lineare».
Tutto questo ce lo dicono femori, tibie e fibule?
«Sì, perché anche negli arti inferiori Homo naledi è particolare: dall’anca si ha un arto dalle caratteristiche primitive ma, scendendo verso il ginocchio e il piede, diventa molto moderno. In pratica, nella stessa specie e addirittura nello stesso arto, nella gamba, convivono caratteristiche primitive e moderne insieme».
Ma come è nato il suo amore per le ossa?
«All’università, a Biologia. Dopo il dottorato a Pisa iniziai a studiare il funzionamento dell’osso nei primati e nell’uomo. Era il 2004. Mandai curriculum in giro per il mondo e mi presero alla Duke, in North Carolina».
Non l’ultima delle università.
«In effetti no... Ho insegnato là per sei anni, poi sono tornato in Italia e ho cercato un posto».
L’ha trovato?
«Macché. Non ottenni neanche di lavorare gratis. Allora ripresi a spedire domande all’estero e trovai un post-dottorato in Sudafrica, alla Wits con Lee Berger. Poi si è aperta un posizione di ricercatore a Pisa, e sono tornato».
Che cosa vede in un osso?
«Un pezzo di un puzzle. Lo guardo e lo tocco: i buchetti, le fossette, le creste, la forma, le rugosità, le inserzioni dei muscoli... Cerco di capire la sua funzione nel corpo, che cosa faceva».
Homo naledi che cosa faceva?
«Camminava tanto. Da tibia e fibula si vede che ha una gamba da corridore moderno, però il torace è a imbuto, stretto in alto, come una scimmia. Come faceva? E poi c’è la questione dei ritrovamenti, in un luogo così isolato».
Una sepoltura?
«Noi parliamo di deposizione intenzionale: i morti venivano portati lì e lasciati, anno dopo anno. Ma come potevano avere un comportamento così complesso con un cervello così piccolo?»
Quanto è antico?
«Possiamo fare solo ipotesi. La morfologia sembra antica, forse di due milioni di anni, tanto da renderlo la possibile base del genere Homo; ma potrebbe anche essere più recente, per esempio due-trecentomila anni fa: il che significherebbe che in Africa sono esistite più specie del genere Homo, contemporaneamente».