la Repubblica, 5 maggio 2016
Il giudice che ha fatto arrestare il sindaco di Lodi avrebbe spaventato Robespierre e confortato Stalin
Il giudice di Lodi, con un solo provvedimento d’arresto, rischia di fare alla magistratura gli stessi danni provocati negli ultimi venti anni dagli attacchi berlusconiani, gli strepiti di Brunetta, gli articoli di Giuliano Ferrara, il garantismo peloso di Ghedini. È infatti un giudice come se lo sognano “lorsignori” quello che firma tre righe che avrebbero spaventato Robespierre e confortato Stalin.
Il gip sostiene che i due imputati, essendo colpevoli di turbativa d’asta con personalità «negativa e abietta» chissà quante altre colpe nascondono perché di sicuro altri delitti hanno commesso, ma facendola sempre franca. Come si vede è un pregiudizio che somiglia al proverbio “picchia tua moglie: tu non sai il motivo, lei sì”. La variante qui è: “arresta il politico …, prima o poi ti dirà lui perché”.
Ma quando un colpevole può essere definito «abietto»? Quando trucca l’appalto di una piscina o quando filma col telefonino l’agonia della vittima appena massacrata? Nell’ordine di arresto c’è anche una dismisura di linguaggio che gonfia invece di riempire, e fa saltare la gerarchia etica dei delitti e dei castighi: se il sindaco nuotatore è abietto, il pedofilo che ha ammazzato la piccola Fortuna è “molto abietto”? E Foffo è “abiettissimo”? Cosa c’è peggio di “abietto”?
È vero che gli indizi contro questo “lupo di piscina” e contro il suo coimputato sono schiaccianti: ha truccato un appalto che poteva fruttare centomila euro l’anno per sei anni non per lucrare danaro ma perché i lodigiani vanno tradizionalmente matti per i tuffi e dunque lui ne ha “comprato” il consenso con i “liquidi” pubblici. Scrive il giudice che «voleva ricavare per sé vantaggi di consenso politico-elettorale» quasi fosse questa l’abiezione insediata nel reato. E di nuovo torna il magistrato come lo raccontano lorsignori, una soluzione primitiva al problema della democrazia, il giustizialismo mesopotamico, il “shophet” che in ebraico significa guida e signore, governatore e boia. Il sindaco, stabilisce il Gip «ha tradito l’alta funzione, gestendo la cosa pubblica in maniera del tutto arbitraria e prepotente». Avesse intascato la tangente sarebbe stato meno arbitrario e prepotente? Poco importa che «ricavare consenso elettorale» sia la sua sostanza, quel carattere di lupo politico con cui Lodi lo riconosce leader di piazza e non di cerimonia, il comunista mai completamente “ex” che servirebbe sia Stalin sia Renzi perché non ha obblighi di coerenza, ma solo di disciplina.
Ovviamente anche così la turbativa d’asta rimane un grave reato che è drammaticamente diffuso nell’Italia corrotta. Non è però l’abisso morale di quel Graziano, presidente (camorrista?) del Pd campano, o di quel consigliere comunale di Siracusa, Antonio Bonafede, beccato sul traghetto per Malta con 20 chili di droga, o ancora di Gianluca Gemelli, il compagno dell’ex ministra Guidi che si voleva mangiare l’Italia a morsi. Non è odioso fare differenze tra reati e reati, ci sono travi e pagliuzze anche nell’amministrazione della giustizia: il ladro assolto perché era povero è un bel caso di pietas più che di caritas, e si sa che la pubblica amministrazione merita una difesa intransigente nell’Italia della tangente. Ma il linguaggio è sempre rivelatore, è la Tac anche della Giustizia perché “la parola non è mai innocente”. Soprattutto il Gip, più ancora del Pm, deve essere freddo, sobrio e asciutto come lo è il medico che non picchia il malato ma lo guarisce, non sgrida il fegato dell’alcolista ma lo cura.
Al contrario, ci sono nozioni di antropologia vagamente lombrosiana nella identificazione della personalità negativa e abietta che «porta a ritenere con decisa verosimiglianza» (va distinta dalla verosimiglianza indecisa?), che gli imputati «abbiano potuto sistematicamente gestire la cosa pubblica con modalità illecite, commettendo reati contro la pubblica amministrazione». Eppure qui c’è solo un reato, che è ben documentato, grazie alla denunzia e alla lunga testimonianza di una funzionaria frastornata e spaventata che registra, e alle intercettazioni che confermano e aggravano.
Tuttavia piovono i rafforzativi in questa ordinanza dove viene evocata due volte «la protervia», che è il compiacimento nel male, «l’assoluta spregiudicatezza», che forse è diversa da quella relativa, e i due arrestati sono «imperterriti» … Ma neppure i troppi aggettivi negativi riescono, come vorrebbero, a far giganteggiare l’esercizio della giustizia. Al contrario qui lo nanificano. E che cos’è di una gara d’appalto? Lasciamo perdere «gli elementi valutati in un’ottica prognostica» che secondo il Garzanti è «la lingua della robotica, della tecnologia dell’automazione». In realtà più che prognostica l’ottica qui è diagnostica visto che l’ordinanza invece di ripromettersi di prevenire reati, arresta (anche) per reati commessi e mai scoperti.
La verità è che il sindaco di Lodi non dovrebbe stare in carcere. Se è colpevole sarà condannato ma non andava comunque arrestato, come ha già osservato ieri su questo giornale Gianluca Di Feo: bastava impedirgli di esercitare le funzioni, sequestrargli i computer, mettergli un braccialetto elettronico e, al massimo, costringerlo agli arresti domiciliari. E invece «la prigione è l’unica misura» perché – e di nuovo il linguaggio tradisce l’eccesso – «l’attuale progresso tecnologico impedisce di monitorare e controllare costantemente gli indagati …». E il ruolo politico «è conoscenza degli strumenti investigativi». E avanti cosi, con la psicanalisi in luogo delle prove, la semiologia in attesa dei riscontri, il tuono etico sul clic delle manette.
Nelle ultime righe dell’ordinanza il giudice rimprovera al sindaco di aver violato il patto con gli elettori, ed è un giudizio che davvero non compete a nessun magistrato. Il reato, ricordiamolo, è turbativa d’asta, per aver favorito nella gestione della piscina una società controllata a metà dal Comune. Prendeva i soldi per il Comune. La pena è da sei mesi a cinque anni. Il giudice invece lo vuole mandare all’Inferno.
Nell’attesa lo ha assegnato a Milano, a San Vittur, «sbattuu de su, sbattuu de giò / mi sont de quei che parlen no», invece che chiuderlo nel carcere modello di Lodi dove – non sia mai – avrebbe sofferto un po’ di meno.