la Repubblica, 8 febbraio 2016
In italiano rischiano le “i” moleste
Anche l’italiano ha avuto i suoi circonflessi, come in “principî” (plurale di “principio”) per distinzione da “prìncipi” (plurale di”principe”), o “assassinî” e “omicidî”: ma li abbiamo persi per tempo, fidandoci che il contesto ci dica quello che l’ortografia ci tace.
Quali altre semplificazioni adottare? Ci sarebbe sempre quel problema con le moleste “i” che vanno e vengono da “superficie”, “deficiente”, “cosciente”, “conoscente”, “sognare” e “sogniamo”, “pasticcere” e “pasticcieria”, che solo speciali pronunce regionali fanno sentire all’orale (magari anche quando non ci sono) e mettono dubbi tremendi quando si scrive. E con “province” o “provincie” e “ciliege” o “ciliegie”?
Appunto quando si scrive ora ci sono i correttori ortografici e la semplificazione la fanno loro, senza bisogno di pronunce (senza “i”) di commissioni e grammatici. Come nei confronti dei cambiamenti climatici globali o del canone Rai nella bolletta telefonica, ci rassegniamo (con la “i”) a quei “pò” con l’accento anziché l’apostrofo di elisione, quei “perchè” con accento grave anziché acuto. E se non ci rassegniamo, allora accediamo a uno dei compiti più penosi del videoscrivano: la correzione del correttore. Del resto si sono passate ore a blandire e minacciare editor librari perché non ci togliessero il segno dell’accento a “sé stesso”, che è più che legittimo, malgrado qualsiasi inutile sciocchezza possano averci inculcato alle scuole elementari o medie.
Meno a rischio, tutto sommato, sembrano le eccentriche “h” di “ho, ha, hai, hanno” o anche il “ch” sostituito nella scrittura sintetica degli sms da “k”. A volte si leggono tweet con “squoiare” ma sembrano fenomeni marginali, non tali da giungere a una soglia critica.
Sul “tutt’apposto” e sulle “donne incinta” o “in cinta” invece si comincia a disperare, come sul “qual’è” apostrofato. Ma non sono neppure semplificazioni, queste: sono usi devianti che si impongono per impulsi forti e inspiegabili. Inspiegabili, se non con il fatto che scriviamo più di quanto leggiamo.