Corriere della Sera, 11 dicembre 2015
Perché gli italiani non si sentono in guerra
«Siamo in guerra». «Chi, io?». Se qualcuno volesse capire come l’italiano medio viva l’attuale drammatica congiuntura internazionale troverebbe la risposta più confacente proprio in quell’interrogativo, che ben riassume una radicata estraneità alle tensioni belliche.
C’è tutto l’italiano d’oggi, antico e postmoderno insieme, in quel dichiarare «non mi compete». C’è la quasi ingenua ammissione di non essere adeguatamente pugnace; c’è l’antica prudenza di star lontano, se possibile, dalla linea del fuoco; c’è la sottintesa cinica propensione al «se posso, svicolo»; c’è l’abitudine ad allontanare l’angoscia e il ricatto di chi fa dell’angoscia un’arma di guerra; c’è l’implicito trincerarsi nella quotidianità e nella costanza degli stili di vita; c’è la constatazione che è quasi impossibile decifrare e capire la complessità di quel che sta avvenendo; c’è la resistenza a farsi trascinare dalle altrui pulsioni (tutti ricordano che facemmo male a seguire Bush in Iraq e Sarkozy in Libia); e c’è in fondo un antico fatalismo verso gli eventi che non si possono dominare, magari con la riscoperta di un po’ di impaurita devozione creaturale (quante preghiere e quanti ex voto hanno costellato la nostra vita collettiva, dal ’40 al ’45!).
Essere o non essere una nazione solida e determinata. Questo è sempre stato il nostro dilemma, cui si può attribuire la frequente non eroica resistenza al «prendere armi contro un mare di guai e, combattendo, por fine ad essi». Oggi quella resistenza ritorna, mettendo in ombra e forse sottovalutando guai che per alcuni sono inseriti in un epocale scontro di civiltà, così violento da chiamare a una mobilitazione di massa, al limite anche bellica. Ma non opera soltanto la tradizione storica sotto tale resistenza; opera anche, e forse specialmente, la specifica evoluzione strutturale degli ultimi settant’anni, durante i quali, complici silenziosi la pace e la democrazia, siamo diventati una società ad alta, anzi altissima soggettività, dove ogni problematica viene ricondotta all’io individuale (mia è l’azienda, mio è il tempo, mio è il lavoro, mio il figlio, mio il corpo, mia addirittura la morte) in una grande frammentazione molecolare dei sentimenti e anche degli interessi. E a tale coazione egocentrica non può sfuggire un evento come la guerra (è difficile pensare un italiano che dica «la mia guerra»).
Se si pone attenzione a ciò, si capiscono facilmente le difficoltà che incontra la politica, stretta fra quella necessità di un collettivo noi (la nazione, l’Europa, l’Occidente) che è indispensabile per gestire i conflitti internazionali e la necessità di un consenso interno tutto condizionato dall’imperante soggettività dell’«io che c’entro?». Stretta, in altre parole, fra le spinte a schierarsi con alleati vecchi o nuovi e la vocazione a navigare prudentemente nei flutti degli avvenimenti. Dio non voglia che arrivi il momento in cui dovremo schierarci; e più ancora che ci si schieri con l’avventatezza dell’ultimo momento. Di solito non ci riesce bene.