Corriere della Sera, 3 dicembre 2015
A Monaco ’72 gli atleti israeliani furono torturati
Prima d’aprire la cartelletta con le foto, l’avvocato Pinchas Zeltzer le chiese se volesse un dottore di fianco. Ilana Romano rispose di no. Aspettava da vent’anni quelle immagini di suo marito. Anche se non se le aspettava così: «Fu dolorosissimo. Fino a quel giorno, avevo avuto di Yossef il ricordo d’un giovane uomo con un grande sorriso e le fossette. In quel momento, si cancellò tutto lo Yossi che conoscevo». Accadde nel 1992, lo rivela ora il New York Times: il governo tedesco ha declassificato gli scatti terrificanti, «non pubblicabili», di ciò che i palestinesi di Settembre Nero fecero agli undici atleti israeliani presi in ostaggio alle Olimpiadi di Monaco 1972. I peggiori riguardano proprio Yossi Romano, il sollevatore di pesi che aveva provato a ribellarsi. Violentato, evirato, lasciato agonizzare davanti ai compagni di squadra. Ai quali peraltro, prima di morire, non furono risparmiate le torture: carbonizzati nel blitz per liberarli, avevano tutti le ossa spezzate.
È tutta un’altra storia: i fedayn dell’Olp hanno sempre sostenuto di non aver voluto uccidere, «gli ostaggi morirono quando la polizia ci attaccò». Le foto delle sevizie confermano invece quel che andava dicendo la vedova Romano: «Erano venuti alle Olimpiadi per colpire duro. Per uccidere». 69 anni, padre pistoiese e madre libica, Ilana s’è rifatta una vita ma non s’è mai fatta una ragione di quei morti. Di come morirono. Nelle sue azioni legali contro le autorità tedesche, quando esigeva trasparenza, s’era regolarmente sentita rispondere che non esistevano documenti riservati. Nel 1992, scaduto l’obbligo del segreto, fu un ex funzionario dei servizi di Bonn a spedire all’avvocato 80 pagine di dettagli. E la cartelletta con quelle foto: Ilana e Ankie Spitzer, moglie dell’allenatore di scherma André ucciso assieme a Yossi Romano, insistettero per vederle, ricordarle per sempre, non palarne mai più. Fino a oggi, al film-documentario «Munich 1972 & Beyond» che uscirà in America a gennaio e, per la prima volta, le mostrerà.
Ce n’era bisogno? Sì, dice Ilana. È materia che ancora disturba: sono 40 anni che lei chiede d’aprire ogni Olimpiade ricordando la strage. Ma il Cio, per non avere grane con molti Paesi arabi, anche a Rio 2016 eviterà una cerimonia a parte: gl’israeliani saranno commemorati, sì, ma come tutti gli atleti morti per varie ragioni in 120 anni di Giochi. È anche materia che continua a scottare. Per dirne una: l’architetto della strage, Abu Daud, prima di morire nel 2010 a Damasco, rivelò che l’operazione era stata finanziata con 9 milioni di dollari. E che quei soldi erano stati trovati da un oscuro funzionario dell’Olp che si chiamava Abu Mazen. «Invenzioni», ha sempre replicato l’entourage del presidente palestinese. Cinque anni fa però, alla Mukata di Ramallah, fecero sensazione la passatoia, i fiori, i ventun colpi sparati al cielo in onore di Amin Al Hindi. Era l’ultimo palestinese sopravvissuto al gruppo di Monaco e, negli anni successivi, alla vendetta del Mossad. Gli dedicarono funerali solenni. E Abu Mazen s’inchinò: «Quest’uomo – disse – ci mancherà».