il Fatto Quotidiano, 21 aprile 2015
Salvini, dal Leoncavallo al Caroccio, dal Che alla Padania. In un libro Michele De Lucia racconta le origini comuniste del leader leghista
Leoncavallo, graffiti e grigiore. Nel settembre del 1994 alla ribalta delle cronache milanesi ritorna l’annosa questione del Leoncavallo, il controverso centro sociale “alternativo” la cui sede è abusiva, in quanto collocata in una struttura privata occupata. L’opinione pubblica milanese è divisa: la sinistra apprezza il Leoncavallo, mentre la destra lo vorrebbe smantellare. Sul centro sociale pende la minaccia dello sgombero con intervento della forza pubblica. Sabato 10 settembre una manifestazione cittadina in difesa del Leoncavallo degenera: incidenti, scontri con la polizia e vetrine infrante. Il sindaco di Milano, il leghista Marco Formentini, è per la linea dura: dice che “è solo un problema di ordine pubblico”, che “per quelli del Leoncavallo a Milano non c’è posto. Io non ho sedi da dargli… Cacceremo via questi randagi dalla città”.
Quando a palazzo Marino si dibatte il problema, il consigliere leghista Salvini difende a sorpresa il centro sociale e i manifestanti: “Gli incidenti sono avvenuti per colpa di pochi violenti, mentre i quindicimila giovani che hanno manifestato avevano ragioni giuste e condivisibili, ma sono stati strumentalizzati”. Poi dice alla stampa: “Sì, dai 16 ai 19 anni, mentre frequentavo il liceo, il mio ritrovo era il Leoncavallo. Là stavo bene, mi ritrovavo in quelle idee, in quei bisogni…”. Segue la prima intervista di Salvini (Marco Corrias, Epoca il 25 settembre 1994), e in poche battute – un colpo di qua, uno di là – si capisce che come apprendista politicante il ragazzo ha dei numeri: “Ma chi l’ha detto che i giovani del Leonka sono tutti violenti? Quelli pericolosi, i più politicizzati, saranno una trentina. Per il resto si tratta di brava gente”.
Il suo sindaco, Marco Formentini, non la pensa come lei.
Perché io il Leonka l’ho frequentato, dai 17 ai 19 anni, e conosco quei ragazzi. Facevo il liceo e tutti i miei amici erano lì. Era un posto ottimo per passare la serata a chiacchierare e bere una birra, ascoltare musica o vedere uno spettacolo teatrale.
Ma come fa un leghista a stare nel “covo” della sinistra?
Guardi che al Leonka ci vanno persone di tutti i tipi. E anche tanti che di politica si disinteressano.
Ma un leghista sembra proprio fuori luogo in quell’ambiente.
Io sono diventato leghista a 17 anni e ci sono andato fino ai 19. Nessuno mi ha mai detto nulla. Ancora oggi i miei amici lo frequentano… Io non ci vado più perché come consigliere comunale non posso andare in una struttura illegale… Il Leonka ha diritto a essere legalizzato: basta che paghi acqua, luce, telefono, Siae e che non dia fastidio ai vicini.
Formentini però non la pensa così. Per lui i frequentatori del centro sono “randagi”.
Io queste cose le ho dette in consiglio comunale già due giorni dopo gli scontri, ed era un intervento concordato con Formentini. Il quale mi ha detto: “Va bene, bisogna gettare acqua sul fuoco”.
E con la violenza come la mettiamo?
Ripeto: i violenti sono pochissimi. Su mille che al sabato sera vanno al Leoncavallo, saranno una trentina. Basta isolarli.
Ma quelli che si sono scontrati [con la polizia] non erano così pochi.
Quella era una manifestazione nazionale. Erano arrivati da Napoli e da Roma per creare disordini. Ma la maggioranza dei centri sociali, e a Milano sono una quindicina, ha condannato quella violenza.
Sulle ali dell’entusiasmo, poco tempo dopo il giovane consigliere comunale Salvini propone un ordine del giorno per dire sì ai graffiti metropolitani in appositi spazi autorizzati: “Vogliamo una città più vivace e colorata, e vogliamo evitare il graffito selvaggio… Dobbiamo dare colore e vivacità a strutture cittadine per anni trascurate e perciò poco gradevoli all’occhio del cittadino. E dobbiamo offrire ai giovani ambiti di espressione che non sono mai stati concessi in precedenza”. Quando il consiglio comunale approva la sua proposta, Salvini gongola: “Non vogliamo emulare alcuni quartieri di New York, Amsterdam e Los Angeles, sarebbe impossibile. Ma un piccolo sforzo di vivacità si può fare. I consigli di zona potrebbero indicare, oltre ai luoghi, anche gli argomenti che preferiscono… Così allo stesso tempo combattiamo gli eccessi di alcuni giovani troppo spregiudicati e il grigiore della città”. Un piccolo genio della politica amministrativa. E a suo modo un precursore, dato che i graffiti selvaggi diventeranno una delle caratteristiche della Milano del Duemila.
Forte con i deboli. Tra le periodiche carnevalate leghiste, nell’ottobre 1997 va in scena la commedia delle cosiddette “Elezioni padane”. Fra le varie liste più o meno pittoresche, c’è quella dei “Comunisti padani”, con tanto di falce e martello. “A Milano i ‘comunisti padani’ sono quasi tutti studenti universitari col distintivo di Che Guevara all’occhiello. Li guida Matteo Salvini. Saranno presenti in 14 ‘circoscrizioni’ su 46”. Finita la sceneggiata del “comunista padano” col distintivo di Che Guevara (una moda intramontabile), Salvini si impegna in una doppia pagliacciata razzista e demagogica. Nominato commissario cittadino della Lega, nel luglio del 1998 istituisce un numero telefonico dove si potranno segnalare casi di delinquenza e criminalità degli extracomunitari (quelli dei comunitari non interessano): “La Lega raccoglierà tutte le segnalazioni e le inoltrerà alle autorità competenti. In assenza di risposte o risoluzioni, la Lega avvierà le azioni giudiziarie che riterrà più opportune per stanare i responsabili delle latenze e delle omissioni”. Il segretario della Lega lombarda Roberto Calderoli spiega che si tratta di “una iniziativa di sostegno ai cittadini milanesi condannati dalla classe politica italiana a convivere con il terrore e il degrado causato dalla presenza incontrastata degli immigrati clandestini”.