il Giornale, 7 aprile 2015
Il boom di nobili taroccati. Principi, duchi, conti e marchesi sono decaduti quasi 70 anni fa, ma il mercato dei titoli nobiliari attira 20mila italiani all’anno. Così aumentano le truffe e i falsi
«Lo sa cos’è questo circolo, lo vuol sapere cos’è? Ebbene glielo dico: è un letamaio, sì un letamaio! Insisto! E non gliel’ho detto prima lo sa perché? Perché sono un signore e signori si nasce; e io lo nacqui, modestamente!». Totò nel film capolavoro del 1960 Signori si nasce interpretava il barone Ottone Spinelli degli Ulivi, detto Zazà. Quello stesso Totò che spese parte del suo patrimonio in studi genealogici e araldici al fine di ottenere i titoli di principe, conte Palatino, nobile e, addirittura, altezza imperiale, tanto che il suo nome lievitò esponenzialmente in Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, più semplicemente Antonio De Curtis. Chi meglio del principe della risata può rappresentare i destini dell’attuale nobiltà, termine ormai obsoleto e svuotato del suo antico significato? Anche in quel vecchio film Totò raccontava la vita di un nobile decaduto, che dopo aver dilapidato il patrimonio di famiglia, nonostante l’indigenza economica, continuava a vivere da nobile, alloggiando in un albergo e facendosi servire dal fedele (e mai pagato) maggiordomo Battista. La parodia perfetta di ciò che è accaduto veramente a molti nobili decaduti di oggi.
In Italia ci sono ancora oltre 7.500 famiglie nobili, per un totale di oltre 78mila persone concentrate perlopiù a Firenze (Antinori, Corsini, Frescobaldi, Guicciardini, Torrigiani), Milano (Borromeo, d’Adda, Melzi, Pallavicini, Sforza, Visconti), Venezia (Foscari, Giustinian, Trevisan, Tron, Venier), ma anche Roma, Torino, Napoli e Palermo. Circa un terzo rappresenta la nobiltà semplice, cioè senza titoli al di sopra di quello di nobile, due terzi, invece, possono sfoggiare titoli nobiliari superiori: principe (rappresentano circa il 6,5 per cento di tutti i titolati), duca (4 per cento), marchese ( 24 per cento), conte (oltre il 52 per cento), visconte (lo 0,1 per cento), barone (13 per cento).
I nobili di oggi mantengono il titolo ma hanno perso quasi completamente lo smalto di un tempo. Non assomigliano più nemmeno lontanamente a quelli di Roma antica, detti della «nobiltà di fatto», legata a funzioni di amministrazione. Una nobiltà di diritto si formò solo nell’XI secolo, ed era legata prevalentemente a funzioni militari e a privilegi legati al possesso di terre. Tra le tradizionali prerogative nobiliari c’erano l’ammissione esclusiva ai più prestigiosi collegi professionali (dei giureconsulti, dei fisici, dei medici, etc.), l’esenzione dal pagamento delle tasse, il diritto di essere giudicati solo da nobili. Insomma per dirla alla Marchese del Grillo «me dispiace, ma io so’ io... e voi nun siete un c…!». Noblesse oblige.
Eppure con il trascorrere dei secoli la pacchia è finita anche per loro. Durante il Regno d’Italia la nobiltà era regolata dallo Statuto Albertino («... i titoli di nobiltà sono mantenuti per coloro che vi hanno diritto; il re può conferirne dei nuovi») e i provvedimenti nobiliari erano suddivisi in due categorie: quelli reali (di grazia) e quelli ministeriali (di giustizia). I primi discrezionali, i secondi in applicazione di norme dello Statuto. Dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica italiana e cioè dal 1º gennaio 1948 è cambiato tutto. I titoli nobiliari sono diventati pura facciata, privati di qualsiasi valore giuridico. Non possono più essere inseriti nei documenti di riconoscimento. Venne reso possibile però avere «cognomizzati i predicati», qualora antenati nobili avessero avuto titoli riconosciuti anteriormente al 28 ottobre 1922 (il giorno della marcia su Roma). Un esempio: se i trisavoli si fregiavano del titolo di principe di Collereale, nei documenti di Mario Rossi sarebbe stato possibile inserire Mario Rossi di Collereale. Magra consolazione: fregiarsi di titoli nobiliari ereditari (specialmente per i «non nobili» nati dopo il 1948) risulta tutto sommato un anacronistico divertissement. Insomma, dopo la sconfitta della monarchia per la nobiltà è iniziato un rapido declino. Un destino ben rappresentato dalla fine dei Savoia, umiliati ed esiliati. Il risultato è che oggi, a parte alcune antiche casate che vantano un sangue blu purissimo, è sopravvissuta una pallida imitazione relegata a dubbi riconoscimenti nobiliari da parte dello Stato, e ordini cavallereschi i cui nomi fanno venire in mente più un film di Fantozzi che un titolo di prestigio. In particolare l’ordine di San Giovanni di Gerusalemme, detto di Malta, continua ad ammettere nelle sue fila cavalieri di provata nobiltà, anche se nella categoria di «cavaliere di grazia magistrale» sono ammessi anche i non nobili che costituiscono la maggioranza dei membri dell’ordine.
Ma la sostanza è ancora peggiore. Secondo l’ordinamento italiano i titoli nobiliari non solo non possono essere comprati o venduti (si trasmettono solo per discendenza) ma dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana sono decaduti e privi di ogni effetto giuridico. Allora che fare, se si nutre il sogno di diventare marchese, conte, duca, barone o cavaliere? Basta pagare. La nobiltà tarocca è una pratica più diffusa di quanto si possa immaginare (vedi anche il pezzo a fianco). Circa 20mila persone all’anno utilizzano questi stratagemmi per tingere di blu il loro sangue, aggiungendo, ad esempio, il prefisso De o ancor meglio De’. Come è il caso della famiglia De Benedetti: l’ex senatore Franco Debenedetti è fratello del super editore Carlo che però si scrive De Benedetti. Forse un errore da parte dell’ufficiale di anagrafe o forse la voglia dell’Ingegnere di darsi un tono araldico.
Una piccola vanità condivisa con migliaia di connazionali, molti dei quali pur di vantare uno straccio di titolo sono perfino disposti a dichiararsi discendenti di quei «nobili della scaletta» che il 13 giugno 1946 re Umberto II di Savoia pare abbia nominato proprio sulla scaletta dell’aeroplano, pochi attimi prima di volare in Portogallo. Gli aspiranti nobili che invece non riescono neppure ad attaccarsi alla regia «scaletta», possono optare per il doppio cognome (il paterno e il materno). Non serve ma fa comunque scena.
Insomma, nonostante il mondo della monarchia sia solo un antico ricordo e la nobiltà ostentata oggi faccia quasi sorridere, sono evidentemente tanti coloro che ambiscono ad un titolo nobiliare da spiattellare in faccia ad amici e conoscenti. E per riuscirci sono disposti a spendere soldi o stringere contatti o garantire lauti finanziamenti a gruppi ed associazioni in grado di rilasciare roboanti attestati. Piccoli/medio borghesi desiderosi di inserire un titolo «nobile» nel proprio biglietto da visita o sull’elenco telefonico. Roba utile solo ad aggiungere sul citofono di casa un gentilizio stemma di famiglia. Non necessariamente si tratta di persone frustrate o non realizzate. Spesso sono professionisti o facoltosi imprenditori attratti dal fascino della nobiltà. Anche molte vecchie star di Hollywood, per esempio, ne sono rimaste contagiate: Charlie Chaplin, Humphrey Bogart, Clark Gable, Anthony Quinn. Perfettamente inutile scandalizzarsi. Da decenni in Italia la pratica che più dovrebbe far rabbrividire è quella della richiesta di titoli di commendatore e cavaliere a politici di vario rango, i quali, sponsorizzano i futuri titolati, raccomandandoli alle commissioni preposte.
L’incorruttibile pizzardone Otello Celletti (Alberto Sordi) nel film Il vigile, ospite a una festa di nobiluomini, diceva al padrone di casa: «Io credo che, sotto sotto, siamo tutti un po’ nobili...». E in Italia a pensarla come il vigile Celletti pare siano davvero in tanti.