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 2014  ottobre 16 Giovedì calendario

Parla Alvy Ray Smith, fondatore della Pixar: «Steve Jobs era un bullo, tiranno e bugiardo. Ma fu l’unico a comprarci…»

Se non si fosse fratturato una gamba, forse il cinema non avrebbe potuto vedere capolavori di animazione come Toy Story, Gli incredibili, Up, Ratatouille, Monsters & Co. e molti altri. Alvy Ray Smith, un signore di 70 anni con la barba alla Antonio Ricci e la camicia da guru, ingegnere informatico di New York, racconta a Libero l’incredibile storia che lo ha portato, quasi trent’anni fa, a fondare la Pixar, la rivoluzionaria società di computer grafica che ha avuto il coraggio di duellare con la Disney, di cui dal 2006 fa parte, e di creare gioielli cinematografici di qualità assoluta. Lo fa a Torino, dove è ospite del View Conference, appuntamento cruciale per gli appassionati della computer grafica. Come si è avvicinato all’animazione? «In famiglia avevo parecchi artisti, ma ero anche bravo in matematica. Mi sono laureato in informatica e mi sono messo a insegnare a New York. Avevo 29 anni. Poi mi sono rotto una gamba e sono stato inchiodato al letto per tre mesi. Non potevo fare nulla, solo pensare. E sono arrivato alla conclusione che stavo facendo la cosa sbagliata. Dovevo fare qualcosa di artistico. Ho mollato l’insegnamento e l’accademia e sono volato in California». E poi? «Un mio amico stava lavorando alla Xerox Parc, la più grande industria di computer. Era, all’epoca, il posto più eccitante del mondo, alla fine degli anni Settanta. Il mio amico aveva inventato il primo programma per dipingere al computer. La grafica, i software, internet: tutto stava accadendo. Questa è la mia vita, pensai dipingo, creo arte con il computer. Ma la Xerox mi licenziò». Perché? «“Perché abbiamo deciso di non usare i colori”, mi dissero. Me ne andai. Fortunatamente conobbi un tipo pazzoide a Long Island che aveva fondato uno studio di animazione all’avanguardia. Fu mio partner per 16 anni. Con gli ultimi soldi che avevo, presi un aereo per tornare a New York. Fu allora che bussarono alla nostra porta prima Francis Ford Coppola e poi George Lucas». Sceglieste di lavorare con Lucas. «Valutammo che la persona che chiamò per conto di Coppola non fosse affidabile. Cercavamo qualcuno che fosse finanziariamente solido. Ma successe che Lucas divorziò dalla moglie: in California, in caso di divorzio, i soldi vengono spartiti a metà tra i coniugi. Quindi Lucas perse metà della sua fortuna in una notte. Allora ci preoccupammo di potere essere di nuovo sulla strada. Oltretutto, Lucas era un visionario, un genio, ma non credeva nell’animazione. Eravamo un gruppo di 40 persone talentuose, entusiaste. Allora decidemmo di fondare la nostra compagnia. La LucasFilm che divenne la Pixar. Cruciale fu l’incontro con John Lasseter, all’epoca disegnatore della Disney». Nel 1985 la vostra società è acquistata da Steve Jobs, che la riorganizza e fa nascere i Pixar Animation Studios. Come ricorda il fondatore di Apple? «La maggior parte dei ricordi che ho di Jobs sono brutti. Ma ci diede soldi, quando nessun altro lo fece, quindi grazie. Era un tiranno, un bullo e un bugiardo, un uomo terribile. Per me non era neppure un genio, era solo i soldi. Ci facemmo comprare da lui per disperazione dopo che la General Motors si era tirata indietro». Qualche talento lo avrà pure avuto. «Il marketing. Incluso il marketing di se stesso». Secondo lei quali sono i capolavori dell’animazione? «Domanda difficile. Biancaneve sicuramente. Parlando dell’animazione moderna, la mia opera preferita è Gli incredibili. Il primo film è stato Toy Story, quindi va menzionato. Nel 1988 il nostro Tin Toy fu il primo cortometraggio a vincere un Oscar. Un momento storico». E quale sarà il futuro dell’animazione? Ormai la tecnologia sembra avere superato ogni sfida… «Personalmente credo che il prossimo passo sarà quello di “creare” esseri umani. Generare degli attori, insomma, anche se quelli veri ovviamente non saranno sostituiti. Ma il pubblico, al cinema, non riuscirà a distiguere gli esseri umani veri da quelli fatti al computer. Questo è il futuro, e ci siamo quasi». Tra quanto, secondo lei? «Una ventina di anni. Le confiderò una cosa: lo hanno già fatto. Nel Curioso caso di Benjamin Button, il film con Brad Pitt in cui nasce vecchio e muore giovane. Lo hanno fatto circa a metà della sua vita. Non quando era bambino e non quando era un vecchietto. E nessuno se ne è accorto. Ma la vera difficoltà sa qual è?» Dica. «Creare il talento».