8 luglio 1978
Seveso: i ritardi dei pubblici poteri hanno impedito di conoscere la verità
Corriere della Sera, sabato 8 luglio 1978
Poche settimane dopo che una nube di diossina si era levata dal reattore dell’Icmesa a Seveso la Regione Lombardia varò un programma articolato e complesso (e molto costoso) per il controllo delle condizioni di salute della popolazione dell’area inquinata. Dopo due anni molte migliaia di visite mediche e di esami di laboratorio non riescono ancora a disegnare dinnanzi ai nostri occhi un quadro comprensibile delle conseguenze patologiche che l’inquinamento ha avuto. Per certe patologie si può invocare – a spiegazione – la lunga latenza: se quella determinata modalità di esposizione al rischio che ebbe luogo in Brianza ha avuto per conseguenza un aumento dei cancri e delle leucemie, potremo cominciare a saperlo solo fra qualche anno, probabilmente solo negli anni ’80.
Ma vi sono patologie che avrebbero dovuto manifestarsi già da tempo, come le sofferenze del fegato: a questo riguardo le notizie più significative non vengono dai controlli istituiti dalla Regione, bensì da un’indagine svolta a titolo personale da alcuni ricercatori. Che ha messo in evidenza un raddoppiamento della mortalità per cirrosi epatica nelle città di Seveso e Meda, nei dodici mesi successivi all’inquinamento, ma l’indagine concerne piccoli numeri (la mortalità per cirrosi non è un evento molto frequente) e i ricercatori che vi sono impegnati non hanno avuto la possibilità di declinare il dato rapportandolo all’inquinamento: infatti il dato, desunto dai registri dello stato civile, concerne il territorio delimitato dei confini comunali, ma non fa riferimento ai livelli di inquinamento dei quartieri in cui abitavano, o lavoravano, i malati venuti a morte.
Non è con il lavoro personale di alcuni ricercatori che si possono studiare le correlazioni tra la patologia e i livelli di esposizione al rischio: lo studio di queste correlazioni poteva essere svolto soltanto dalla Regione che aveva affidato ai Consorzi sanitari lo svolgimento delle visite mediche e degli esami di laboratorio, ma se ne era riservata l’elaborazione statistica.
L’elaborazione statistica non è costituita soltanto nel “contare” quanti aborti spontanei si sono verificati, oppure quanti soggetti mostrano segni di lesione nervose: un così grezzo “contare” sarebbe sufficiente solo se le lesioni individuate fossero specifiche della contaminazione da diossina e non si verificassero mai in assenza di tale contaminazione. Ma salvo per quanto riguarda la cloraene nei bambini – una patologia specifica da diossina non esiste: può essere considerata significativa soltanto una frequenza particolarmente alta di determinate patologie non specifiche; e, per essere esatti, sarebbe anzi da considerare significativo un aumento di tale frequenza se esso fosse tanto più elevato fosse il coefficiente di esposizione al rischio.
Poiché il coefficiente di esposizione al rischio varia secondo che il soggetto si fosse trovato all’aperto o al chiuso quando fuoriuscì la nube, secondo che tuttora abiti o lavori in area inquinata, secondo che si sia alimentato con carne o con verdura inquinata, e così via, occorreva suddividere la popolazione, dopo adatti interrogatori e controlli sulle abitudini di vita, in “gruppi omogenei”.
Dopo di che si sarebbe studiata la correlazione fra l’appartenenza a questo o a quel “gruppo” (cioè fra questo o quel livello di esposizione al rischio) e la frequenza delle diverse patologie: si sarebbe visto, per esempio, che l’asma bronchiale si distribuisce indifferentemente tra i diversi gruppi, e quindi si sarebbe stabilito che l’asma bronchiale non dipende dall0’intossicazione da diossina; e se invece si fosse messo in evidenza che le gruppo “a rischio zero” l’incidenza dei segni dell’insufficienza epatica è “X%” e nel gruppo a massimo rischio è “Y%”, se ne sarebbe dedotto che “Y-X%” è la maggior frequenza dovuta alla più grave contaminazione.
L’individuazione dei diversi livelli di esposizione al rischio, e quindi dei “gruppi omogenei”, era stata progettata nel piano di controllo sanitario: ma non è stata eseguita. Il ritardo ne rende difficile, o addirittura impossibile, l’esecuzione tardiva: non si può certo, dopo due anni, iniziare la campagna di interrogatori e controlli. Perciò può darsi che non riusciremo mai a sapere quante persone hanno assunto diossina nell’organismo, e con quali effetti tossici. Anche gli eventuale effetti cancerogeni saranno difficili da valutare: poiché non abbiamo individuato i “gruppi omogenei” non sappiamo qual è la popolazione da considerarsi più contaminata e da tenere sotto più stretto controllo per il tempo necessario a individuare cancri e leucemie, e cioè per un tempo compreso tra cinque e trent’anni. Periodi di tempo così lunghi vedono molte migrazioni, e rendono quindi impossibili e un controllo ravvicinato di popolazioni vaste, mentre l’individuazione di gruppi omogenei avrebbe permesso di circoscrivere il controllo a popolazioni ristrette e significative, o a “Campioni” scientificamente determinati.
Oggi alcuni ricercatori (anche questi, a titolo personale!) propongono un test che meglio di quelli praticati nel programma stabilito dalla Regione permetterebbe, anche a distanza di tempo, di riconoscere con una certa attendibilità i soggetti contaminati: bisognerà valutare attentamente tale metodo, e può darsi che il programma di controllo ne dovrà essere radicalmente modificato.
Il fatto che non si riesca a misurare il danno sanitario prodotto dall’inquinamento del 10 luglio 1976 è certamente grave. Ma ci sono questioni generali ancora più gravi: se guardiamo la realtà in faccia dobbiamo convenire che l’Italia si è dato uno sviluppo individuale, particolarmente orientato in direzione della chimica e della pericolosa chimica organica, senza sviluppare in alcun modo, accanto alle tecnologie produttive, le scienze e le tecniche capaci di riconoscere e misurare i pericoli che l’industria fa correre agli uomini. L’incapacità di far funzionare un piano di controllo sanitario della diossina è l’aspetto particolare che ha assunto, in questa circostanza, l’incapacità generale (legislativa, sociale, culturale) che il nostro paese rivela a tener conto delle esigenze della salute, e non solo delle esigenze della produzione.
Laura Conti
medico vicepresidente della Commissione Sanità e Ecologia del consiglio regionale lombardo