26 aprile 1917
La guerra e la società altotiberina
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La mattina del 26 aprile 1917, appena dopo le 11, in tutta l’Alta Valle del Tevere la gente percepì nitidamente un paio di scosse di terremoto. Il territorio, a rischio sismico, ha sempre convissuto con questa minaccia incombente e imprevedibile. Molti, come di solito avviene in tali circostanze, istintivamente abbandonarono le abitazioni e si riversarono all’aperto. Fu una decisione opportuna. Di lì a poco, alle 11.35, il fenomeno si ripeté, violentissimo, con conseguenze drammatiche. Ne è testimonianza il racconto del priore E. Fattorini di Citerna: «Pochi minuti che rapidamente volarono, quando ecco si ripeté un boato immenso, un urlo promiscuo di tutti gli elementi sconvolti, un sussulto un ondulamento un sovvertimento che tutti inebetì, tutti sconvolse. I tetti, le pareti, le case cadono, rovinano, si sfasciano. La polvere, la caligine, la nebbia si addensano, il sole si oscura, il cielo diventa nero, l’aria non è respirabile; la morte si sente vicina, potente, dominatrice di persone e di cose…». [1]
L’epicentro del sisma fu nella valle del Cerfone, tra Citerna e Monterchi. Anche qui scene apocalittiche: «(…) il boato orribile, il cielo fattosi oscuro, l’aria diventata irrespirabile, le nubi di gas giallastre sprigionatesi dalla terra che si apriva e si richiudeva lungo la linea del Cerfone, il polverone accecante, le urla strazianti, la torre e il campanile che ondulavano come canne mosse dal vento, tetti e muri che crollavano spaventosamente». [2]
A pochi chilometri di distanza, un uomo che si trovava sul colle della Montesca in quei momenti guardò verso Città di Castello; gli sembrò «che ondeggiasse come le acque di un mare». [3]
Nella zona tra il Cerfone e Celle si aprirono numerose fenditure nel terreno e, in un bosco in collina, furono sradicati querce e annosi castagni. La scossa delle 11.35 – la più forte delle 21 che si successero quel 26 aprile – fu calcolata del IX-X grado della scala Mercalli, «con durata 10 secondi, ovest/nord-ovest, ondulatoria e sussultoria con boati». [4]
La distruzione di Monterchi e Citerna
Si legge ne “La Rivendicazione” del 1° maggio: «Monterchi, si può dire, è rasa al suolo; Citerna è diroccata, Lugnano altrettanto; Sansepolcro è lesionata gravemente, così Anghiari; Città di Castello ed i dintorni hanno sofferto forse meno degli altri paesi, ma le condizioni in cui sono state ridotte dal terremoto alcune abitazioni sono poco rassicuranti (…). Si hanno a deplorare anche vittime umane (…)». A Monterchi, il paese più colpito, si contarono 23 morti e 35 feriti, tra cui alcuni allievi della scuola elementare; diverse altre persone perirono per il ritardo dei soccorsi. Altrove non vi furono che pochissime vittime proprio perché le scosse premonitrici attirarono fuori dalle case il grosso della popolazione. Le cronache dell’epoca testimoniano di una reazione della gente atterrita, ma composta. Ovunque, nei centri abitati, si riversò per strada, nelle piazze e negli orti. La vita pubblica cessò: chiusero uffici e negozi. Mentre tecnici e pompieri effettuavano i controlli degli stabili più danneggiati, le scosse di terremoto continuavano, perdendo via via potenza. Poi cominciarono a giungere notizie dalle varie località. Quando a Città di Castello vennero a sapere della tragedia consumatasi a Monterchi, partirono subito per la vicina cittadina toscana i militi della Croce Rossa e, organizzati in improvvisate squadre di soccorso, gli studenti del Collegio Serafini; poi fu la volta dei pompieri, con lettighe e medicinali. Il pomeriggio vi giunsero altri pompieri aretini; l’indomani un centinaio di militari.
I danni e i disagi nel resto della valle
In tutta la valle la popolazione si accampò all’aperto. A Città di Castello molti vi rimasero per quattro giorni, sistemandosi sotto baracche e ripari di fortuna. Fornirono rifugio anche i vagoni ferroviari. Ciascuno pensò per sé. Fortunatamente le condizioni climatiche rimasero buone. La sacra immagine della Madonna delle Grazie, abitualmente invocata dai tifernati a protezione della città contro epidemie e catastrofi naturali, fu esposta in un altare all’aperto al Cavaglione, fuori porta San Giacomo; era lesionata la stessa chiesa dove la si venerava. Il tempo clemente favorì un grande afflusso di popolo per diversi giorni e il vescovo Liviero incontrò centinaia di persone nel confessionale posto sotto un albero dietro all’altare. Lunedì 30 aprile la Madonna venne solennemente portata in precessione fino al duomo. [5]
A Sansepolcro, per alloggiare i sinistrati, tornarono utili il tendone e i baracconi del Circo Varietà, allora di passaggio per il paese; i proprietari li misero a disposizione dei cittadini finché non giunsero le tende governative. I borghesi espressero la loro riconoscenza nei confronti del Circo, così come dell’amministrazione di Pieve Santo Stefano, non toccata dal sisma e pronta nell’offrire soccorsi, e dei pompieri di Città di Castello e di Roma, accorsi con prontezza ed efficacia. Prestarono aiuto anche i militari del distaccamento: presidiarono di notte la città e per otto giorni fu vietato il transito alle persone in ingresso e in uscita dalle 11 di sera alle 6 del mattino. [6]
A Umbertide la Croce Rossa Italiana inviò 50 tende alpine con coperte e un tendone-ospedale, capace di ospitare fino a 25 persone. La popolazione si accampò all’aperto anche ad Anghiari, dove il terremoto aveva provocato una vittima e diversi feriti, e nella diroccata Citerna. In quei giorni accorsero pompieri da Arezzo, Bologna, Firenze, Perugia e Roma. Città di Castello fu orgogliosa del suo «esiguo ma bravo drappello», che compì «prodigi di abnegazione e di sacrificio per estrarre da sotto le macerie le infelici vittime ed i poveri superstiti». [7]
Gli altotiberini apprezzarono la visita della regina Margherita. Giunse il 29 aprile e promise aiuti in denaro, vestiario e alimenti, che pervennero di lì a poco. Portò la sua solidarietà anche nelle campagne. Quando arrivò a Lugnano, accompagnata dal barone Leopoldo Franchetti, poté constatare che le abitazioni della frazione, ad eccezione di un paio, erano ormai inabitabili. Tutto il territorio rurale e le alture alla destra del Tevere vivevano una situazione di assoluta precarietà, con case coloniche in genere crollate o lesionate e stalle pericolanti che non potevano dare riparo al bestiame. Anche secolari edifici storici erano stati messi a dura prova. Del castello di Lippiano risultavano agibili solo i granai e le cantine; gravi danni aveva subito pure la chiesa in costruzione e la nuova canonica era in rovina. Il dramma del terremoto alimentò la solidarietà popolare. Non placò invece le tensioni politiche. A Sansepolcro i socialisti contestarono al commissario Stagni di aver lasciato a se stessa la popolazione («nessuna parola che invitasse alla calma e alla tranquillità, alla cooperazione e al soccorso in pro dei più disgraziati e dei più bisognosi»), di essere responsabile del disordine che imperava e di non avere una visione strategica sul come fronteggiare l’emergenza. A Città di Castello se la presero ancora con la borghesia («passato il primo momento di orrore e di paura, si è eclissata rapidamente a parecchi chilometri di distanza») e con il sindaco Tommasini, tornatosene presto a Firenze, dove abitualmente risiedeva. Dettero pure la stura al mai domo anticlericalismo quando videro sfilare l’immagine della Madonna delle Grazie ricolma di preziosi ex-voto: «Vorremmo che i preti, o chi per essi, facendo per una volta tanto un atto veramente utile ed umanitario, vendessero quell’oro – del quale la… Madonna non saprà certo che farsene – ed il ricavato lo destinassero a beneficio dei disgraziati colpiti dal terremoto e che son rimasti senza tetto… Se ciò facessero, non diciamo che avrebbero la piena approvazione del Padre eterno – che questo è sottinteso – ma sebbene anche quella della stessa Madonna delle Grazie». [8]
Battute che non piacquero certo al vescovo Liviero, il quale non lesinò energie – così come mons. Ghezzi nella diocesi di Sansepolcro – per soccorrere le vittime del sisma. Se, nel complesso, fu contenuto il numero dei morti, considerevoli apparvero i danni materiali. La documentazione degli archivi comunali ne offre uno spaccato significativo. A Sansepolcro il Genio Civile calcolò in 900 le famiglie danneggiate dal terremoto. Gli ospiti degli Orfanotrofi Riuniti dovettero essere ricoverati temporaneamente presso istituti di beneficenza di Monza e Arezzo. Destò vivo allarme la notizia del trasferimento dell’affresco pierfrancescano della Madonna del Parto dalla distrutta Monterchi ad Arezzo. Il commissario Stagni chiese che l’opera, qualora allontanata da Monterchi, fosse «consegnata a questo Comune patria del sommo pittore per essere conservata in Pinacoteca». Il soprintendente alle Gallerie, Musei e Oggetti d’Arte della Toscana tranquillizzò immediatamente: «L’affresco della Madonna del Parto di Piero della Francesca fu tolto dalla pericolante cappella del cimitero di Monterchi per sola misura di sicurezza: non essendovi dubbio che non appena le circostanze lo consentano debba tornare nel luogo per cui fu dipinto e dove stette fin dall’origine. Esso ora trovasi depositato in una stanza di una casa alle Ville Monterchi, in regolare consegna al proprietario». [9]
Tra gli edifici di proprietà municipale di Anghiari adibiti a servizi pubblici abbisognavano di più urgenti restauri la Fraternita di Santa Maria del Borsetto, l’Asilo Infantile e l’ex convento di San Martino, dal quale era stata sgombrata la compagnia di militari per alloggiarla provvisoriamente nel palazzo comunale. A Città di Castello le spese occorse per i lavori di restauro degli edifici comunali ammontarono a L. 25.414 per le scuole urbane e rurali, a L. 13.391 per gli stabili di uso pubblico e a L. 30.443 per altri beni patrimoniali.
Alvaro Tacchini
Note e Fonti: [1] Testimonianza citata in A. Ascani, Citerna, Ipsia, Città di Castello 1967, p. 242; [2] B. Giorni, Monterchi, Tipografia Tappini, Città di Castello 1977, pp. 114-115; [3] “Il Dovere”, 6 e 13 maggio 1917; [4] Ivi. L’autore dell’articolo, il farmacista Angiolo Bini, dirigeva l’osservatorio sismico situato nella torre del suo palazzo, nell’attuale via Lapi di Città di Castello. Bini riferì anche di «intorbidamenti dei fiumi e ruscelli specialmente nella zona maggiormente colpita». Cfr. anche G. Cangi, Il terremoto del 26 aprile 1917 a Citerna e Monterchi, in “Pagine altotiberine”, 23, 2004, pp. 67-78; M. Arcaleni, Il terremoto in Alta Valle del Tevere, ibidem, 4, 1998, pp. 7-24; “Il Dovere”, 10 giugno 1917, articolo del prof. Emilio Oddone, vice direttore del R. Ufficio Centrale di meteorologia e geodinamica di Roma. La Scala Sismica Mercalli così classificava le scosse di terremoto di maggiore intensità: IX grado: «Disastrosa, con rovina totale o quasi di alcune case, lesioni gravi in molte altre, tale da renderle inabitabili; vittime umane non molto numerose, ma sparse in diversi punti degli abitati»; X grado: «Disastrosissima, con rovina di molti edifici e molte vittime umane, spaccature nel suolo, scoscendimenti nelle montagne, ecc.»; [5] “Voce di Popolo” 4 maggio 1917; “Il Dovere”, 6 maggio 1917; [6] “La Rivendicazione”, 5 e 12 maggio 1917; [7] Ibidem, 12 maggio 1917; [8] “La Rivendicazione”, 1°, 5 e 12 maggio 1917; [9] Nd
La mattina del 26 aprile 1917, appena dopo le 11, in tutta l’Alta Valle del Tevere la gente percepì nitidamente un paio di scosse di terremoto. Il territorio, a rischio sismico, ha sempre convissuto con questa minaccia incombente e imprevedibile. Molti, come di solito avviene in tali circostanze, istintivamente abbandonarono le abitazioni e si riversarono all’aperto. Fu una decisione opportuna. Di lì a poco, alle 11.35, il fenomeno si ripeté, violentissimo, con conseguenze drammatiche. Ne è testimonianza il racconto del priore E. Fattorini di Citerna: «Pochi minuti che rapidamente volarono, quando ecco si ripeté un boato immenso, un urlo promiscuo di tutti gli elementi sconvolti, un sussulto un ondulamento un sovvertimento che tutti inebetì, tutti sconvolse. I tetti, le pareti, le case cadono, rovinano, si sfasciano. La polvere, la caligine, la nebbia si addensano, il sole si oscura, il cielo diventa nero, l’aria non è respirabile; la morte si sente vicina, potente, dominatrice di persone e di cose…». [1]
L’epicentro del sisma fu nella valle del Cerfone, tra Citerna e Monterchi. Anche qui scene apocalittiche: «(…) il boato orribile, il cielo fattosi oscuro, l’aria diventata irrespirabile, le nubi di gas giallastre sprigionatesi dalla terra che si apriva e si richiudeva lungo la linea del Cerfone, il polverone accecante, le urla strazianti, la torre e il campanile che ondulavano come canne mosse dal vento, tetti e muri che crollavano spaventosamente». [2]
A pochi chilometri di distanza, un uomo che si trovava sul colle della Montesca in quei momenti guardò verso Città di Castello; gli sembrò «che ondeggiasse come le acque di un mare». [3]
Nella zona tra il Cerfone e Celle si aprirono numerose fenditure nel terreno e, in un bosco in collina, furono sradicati querce e annosi castagni. La scossa delle 11.35 – la più forte delle 21 che si successero quel 26 aprile – fu calcolata del IX-X grado della scala Mercalli, «con durata 10 secondi, ovest/nord-ovest, ondulatoria e sussultoria con boati». [4]
La distruzione di Monterchi e Citerna
Si legge ne “La Rivendicazione” del 1° maggio: «Monterchi, si può dire, è rasa al suolo; Citerna è diroccata, Lugnano altrettanto; Sansepolcro è lesionata gravemente, così Anghiari; Città di Castello ed i dintorni hanno sofferto forse meno degli altri paesi, ma le condizioni in cui sono state ridotte dal terremoto alcune abitazioni sono poco rassicuranti (…). Si hanno a deplorare anche vittime umane (…)». A Monterchi, il paese più colpito, si contarono 23 morti e 35 feriti, tra cui alcuni allievi della scuola elementare; diverse altre persone perirono per il ritardo dei soccorsi. Altrove non vi furono che pochissime vittime proprio perché le scosse premonitrici attirarono fuori dalle case il grosso della popolazione. Le cronache dell’epoca testimoniano di una reazione della gente atterrita, ma composta. Ovunque, nei centri abitati, si riversò per strada, nelle piazze e negli orti. La vita pubblica cessò: chiusero uffici e negozi. Mentre tecnici e pompieri effettuavano i controlli degli stabili più danneggiati, le scosse di terremoto continuavano, perdendo via via potenza. Poi cominciarono a giungere notizie dalle varie località. Quando a Città di Castello vennero a sapere della tragedia consumatasi a Monterchi, partirono subito per la vicina cittadina toscana i militi della Croce Rossa e, organizzati in improvvisate squadre di soccorso, gli studenti del Collegio Serafini; poi fu la volta dei pompieri, con lettighe e medicinali. Il pomeriggio vi giunsero altri pompieri aretini; l’indomani un centinaio di militari.
I danni e i disagi nel resto della valle
In tutta la valle la popolazione si accampò all’aperto. A Città di Castello molti vi rimasero per quattro giorni, sistemandosi sotto baracche e ripari di fortuna. Fornirono rifugio anche i vagoni ferroviari. Ciascuno pensò per sé. Fortunatamente le condizioni climatiche rimasero buone. La sacra immagine della Madonna delle Grazie, abitualmente invocata dai tifernati a protezione della città contro epidemie e catastrofi naturali, fu esposta in un altare all’aperto al Cavaglione, fuori porta San Giacomo; era lesionata la stessa chiesa dove la si venerava. Il tempo clemente favorì un grande afflusso di popolo per diversi giorni e il vescovo Liviero incontrò centinaia di persone nel confessionale posto sotto un albero dietro all’altare. Lunedì 30 aprile la Madonna venne solennemente portata in precessione fino al duomo. [5]
A Sansepolcro, per alloggiare i sinistrati, tornarono utili il tendone e i baracconi del Circo Varietà, allora di passaggio per il paese; i proprietari li misero a disposizione dei cittadini finché non giunsero le tende governative. I borghesi espressero la loro riconoscenza nei confronti del Circo, così come dell’amministrazione di Pieve Santo Stefano, non toccata dal sisma e pronta nell’offrire soccorsi, e dei pompieri di Città di Castello e di Roma, accorsi con prontezza ed efficacia. Prestarono aiuto anche i militari del distaccamento: presidiarono di notte la città e per otto giorni fu vietato il transito alle persone in ingresso e in uscita dalle 11 di sera alle 6 del mattino. [6]
A Umbertide la Croce Rossa Italiana inviò 50 tende alpine con coperte e un tendone-ospedale, capace di ospitare fino a 25 persone. La popolazione si accampò all’aperto anche ad Anghiari, dove il terremoto aveva provocato una vittima e diversi feriti, e nella diroccata Citerna. In quei giorni accorsero pompieri da Arezzo, Bologna, Firenze, Perugia e Roma. Città di Castello fu orgogliosa del suo «esiguo ma bravo drappello», che compì «prodigi di abnegazione e di sacrificio per estrarre da sotto le macerie le infelici vittime ed i poveri superstiti». [7]
Gli altotiberini apprezzarono la visita della regina Margherita. Giunse il 29 aprile e promise aiuti in denaro, vestiario e alimenti, che pervennero di lì a poco. Portò la sua solidarietà anche nelle campagne. Quando arrivò a Lugnano, accompagnata dal barone Leopoldo Franchetti, poté constatare che le abitazioni della frazione, ad eccezione di un paio, erano ormai inabitabili. Tutto il territorio rurale e le alture alla destra del Tevere vivevano una situazione di assoluta precarietà, con case coloniche in genere crollate o lesionate e stalle pericolanti che non potevano dare riparo al bestiame. Anche secolari edifici storici erano stati messi a dura prova. Del castello di Lippiano risultavano agibili solo i granai e le cantine; gravi danni aveva subito pure la chiesa in costruzione e la nuova canonica era in rovina. Il dramma del terremoto alimentò la solidarietà popolare. Non placò invece le tensioni politiche. A Sansepolcro i socialisti contestarono al commissario Stagni di aver lasciato a se stessa la popolazione («nessuna parola che invitasse alla calma e alla tranquillità, alla cooperazione e al soccorso in pro dei più disgraziati e dei più bisognosi»), di essere responsabile del disordine che imperava e di non avere una visione strategica sul come fronteggiare l’emergenza. A Città di Castello se la presero ancora con la borghesia («passato il primo momento di orrore e di paura, si è eclissata rapidamente a parecchi chilometri di distanza») e con il sindaco Tommasini, tornatosene presto a Firenze, dove abitualmente risiedeva. Dettero pure la stura al mai domo anticlericalismo quando videro sfilare l’immagine della Madonna delle Grazie ricolma di preziosi ex-voto: «Vorremmo che i preti, o chi per essi, facendo per una volta tanto un atto veramente utile ed umanitario, vendessero quell’oro – del quale la… Madonna non saprà certo che farsene – ed il ricavato lo destinassero a beneficio dei disgraziati colpiti dal terremoto e che son rimasti senza tetto… Se ciò facessero, non diciamo che avrebbero la piena approvazione del Padre eterno – che questo è sottinteso – ma sebbene anche quella della stessa Madonna delle Grazie». [8]
Battute che non piacquero certo al vescovo Liviero, il quale non lesinò energie – così come mons. Ghezzi nella diocesi di Sansepolcro – per soccorrere le vittime del sisma. Se, nel complesso, fu contenuto il numero dei morti, considerevoli apparvero i danni materiali. La documentazione degli archivi comunali ne offre uno spaccato significativo. A Sansepolcro il Genio Civile calcolò in 900 le famiglie danneggiate dal terremoto. Gli ospiti degli Orfanotrofi Riuniti dovettero essere ricoverati temporaneamente presso istituti di beneficenza di Monza e Arezzo. Destò vivo allarme la notizia del trasferimento dell’affresco pierfrancescano della Madonna del Parto dalla distrutta Monterchi ad Arezzo. Il commissario Stagni chiese che l’opera, qualora allontanata da Monterchi, fosse «consegnata a questo Comune patria del sommo pittore per essere conservata in Pinacoteca». Il soprintendente alle Gallerie, Musei e Oggetti d’Arte della Toscana tranquillizzò immediatamente: «L’affresco della Madonna del Parto di Piero della Francesca fu tolto dalla pericolante cappella del cimitero di Monterchi per sola misura di sicurezza: non essendovi dubbio che non appena le circostanze lo consentano debba tornare nel luogo per cui fu dipinto e dove stette fin dall’origine. Esso ora trovasi depositato in una stanza di una casa alle Ville Monterchi, in regolare consegna al proprietario». [9]
Tra gli edifici di proprietà municipale di Anghiari adibiti a servizi pubblici abbisognavano di più urgenti restauri la Fraternita di Santa Maria del Borsetto, l’Asilo Infantile e l’ex convento di San Martino, dal quale era stata sgombrata la compagnia di militari per alloggiarla provvisoriamente nel palazzo comunale. A Città di Castello le spese occorse per i lavori di restauro degli edifici comunali ammontarono a L. 25.414 per le scuole urbane e rurali, a L. 13.391 per gli stabili di uso pubblico e a L. 30.443 per altri beni patrimoniali.
Alvaro Tacchini
Note e Fonti: [1] Testimonianza citata in A. Ascani, Citerna, Ipsia, Città di Castello 1967, p. 242; [2] B. Giorni, Monterchi, Tipografia Tappini, Città di Castello 1977, pp. 114-115; [3] “Il Dovere”, 6 e 13 maggio 1917; [4] Ivi. L’autore dell’articolo, il farmacista Angiolo Bini, dirigeva l’osservatorio sismico situato nella torre del suo palazzo, nell’attuale via Lapi di Città di Castello. Bini riferì anche di «intorbidamenti dei fiumi e ruscelli specialmente nella zona maggiormente colpita». Cfr. anche G. Cangi, Il terremoto del 26 aprile 1917 a Citerna e Monterchi, in “Pagine altotiberine”, 23, 2004, pp. 67-78; M. Arcaleni, Il terremoto in Alta Valle del Tevere, ibidem, 4, 1998, pp. 7-24; “Il Dovere”, 10 giugno 1917, articolo del prof. Emilio Oddone, vice direttore del R. Ufficio Centrale di meteorologia e geodinamica di Roma. La Scala Sismica Mercalli così classificava le scosse di terremoto di maggiore intensità: IX grado: «Disastrosa, con rovina totale o quasi di alcune case, lesioni gravi in molte altre, tale da renderle inabitabili; vittime umane non molto numerose, ma sparse in diversi punti degli abitati»; X grado: «Disastrosissima, con rovina di molti edifici e molte vittime umane, spaccature nel suolo, scoscendimenti nelle montagne, ecc.»; [5] “Voce di Popolo” 4 maggio 1917; “Il Dovere”, 6 maggio 1917; [6] “La Rivendicazione”, 5 e 12 maggio 1917; [7] Ibidem, 12 maggio 1917; [8] “La Rivendicazione”, 1°, 5 e 12 maggio 1917; [9] Nd