14 marzo 2011
Verdi deputato per forza
Gazzetta di Parma, 14 marzo 2011
L’uomo che meno avrebbe voluto stare fra i quattrocentoquarantatré deputati della storica VIII legislatura del Regno di Sardegna, quella che avrebbe proclamato l’Unità d’Italia, quel 17 marzo 1861 era là, a Palazzo Carignano, seduto al proprio posto in seconda fila esterno lato corridoio centrale. Giuseppe Verdi le aveva provate di tutte dopo che Cavour un anno e mezzo prima gli aveva proposto la candidatura alla Camera. Lì per lì aveva abbozzato, sperando che con il tempo la proposta passasse in cavalleria, ed era anche riuscito a sventare le elezioni del 1860, mandando avanti Giuseppe Massari per il collegio di Borgo San Donnino. Ma dopo l’annessione delle Due Sicilie, tutto il Parlamento andava ricostituito. E infatti sul finire di quello stesso anno Cavour tornò alla carica, e per Verdi scattò l’allarme rosso: «Non ti sorprendere se mi vedi a Torino! Sai perché sono qui? Per non essere deputato» scriveva il 16 gennaio 1861 ad Angelo Mariani. «Altri brigano per essere, io faccio il possibile per non esserlo. Ma zitto su questo. Ho visto stamattina alle 7 Cavour; ed adesso parte da me Sir Hudson che voleva andassi a pranzo da Lui, ma andrò a prendervi il caffè» – l’ambasciatore inglese a Torino James Hudson già nel ‘59 aveva sollecitato il compositore all’impegno politico diretto sostenendo la resistenza armata a Busseto. Manovre ardite e complicate, a undici giorni dall’apertura dei seggi.
Era chiaro che Verdi
rappresentava per la causa
liberale moderata un testimonial fenomenale: statura intellettuale
internazionale, immediato legame con sentimenti popolari applicabili al nuovo
nazionalismo unitario, facile presa sull’immaginario del pubblico vasto e
interclassista del melodramma. A tutto questo avevano contribuito i momenti nei
quali Verdi, si badi bene perdendo al contempo qualsiasi interesse per la
composizione musicale, si era infervorato per le gesta nazionalistiche più
arrembanti, nel ‘48 e ancora di più nel ‘59, presto abbandonate nel momento in
cui la politica delle parole cominciò a sostituire quella delle battaglie. E
Verdi non era fatto per queste cose.
Aveva provato a
spiegare a Cavour la propria inattitudine al ruolo di parlamentare e la scarsa
pazienza per i discorsi lunghi, ma lo fece in modo così impacciato, facilmente
messo in difficoltà dalle abili risposte di un divertito Cavour, che alla fine
se ne tornò a S. Agata con le pive nel sacco. E con una, labile, promessa
strappata al primo ministro: che si sarebbe dimesso appena la capitale si fosse
trasferita a Roma.Si aprirono così dieci giorni da incubo per Verdi.
Ovviamente non fece
campagna elettorale, anche per rispetto all’altro candidato del collegio di
Borgo San Donnino, Giovanni Minghelli-Vaini, che in un primo tempo la Strepponi
aveva rassicurato circa l’impossibilità che il marito si candidasse. Ora invece
Minghelli-Vaini si trovava con un avversario strafavorito in casa: inutile
ormai pregare Verdi di candidarsi in un altro collegio, e dovette accontentarsi
di intascare le imbarazzate spiegazioni del compositore sulla vicenda. A quel
punto Minghelli-Vaini, deputato uscente, poteva contare solo sul sostegno della
«Gazzetta di Parma», schierata con i moderati costituzionali.
Mentre si
avvicinava il voto, il quotidiano gestiva un’allusiva campagna contro i
cattolici astensionisti manovrati da (senza citarlo) don Margotti, cercando al
contempo di distrarre i lettori dalle vicende dell’assedio di Gaeta e di
allontanare da Garibaldi l’ala radicale del Partito d’Azione. E mentre Verdi
scriveva a Minghelli-Vaini, al Ridotto del Regio venivano ufficializzate le
candidature di Girolamo Cantelli per il collegio Parma Nord e di Giuseppe
Piroli per il Parma Sud. Da quel giorno la «Gazzetta» cominciò a sostenere
ufficialmente, oltre a Cantelli e Piroli, Pietro Torrigiani su Borgotaro, l’ex
rivoluzionario del 1830 e gentiluomo coltissimo Antonio Gallenga su Langhirano
– pubblicando anche gli elogi al candidato addirittura di Benjamin Disraeli – e
Minghelli-Vaini.
Alle urne il 27 gennaio 1861 passarono al primo turno solo Cantelli e Torrigiani. Gallenga era in vantaggio 190 a 140 su Nino Bixio, che comunque poteva contare sul collegio di Genova. Nel resto d’Italia ben 205 collegi andarono al ballottaggio (si votava con la discussa uninominale alla francese a due turni). Vincitori al primo turno furono, tra gli altri, Cavour (620 voti), Rattazzi, La Marmora, Coppino, Spaventa, Cialdini e Cassinis (che poi diventerà Guardasigilli). In tutto il territorio unificato aveva votato il 57,23% degli aventi diritto, pari a 239.583 elettori (maschi sopra i 25 anni alfabetizzati con censo fiscale superiore alle 40 lire piemontesi, più ceti professionali di livello), vale a dire lo 0,9% della popolazione.
A Borgo S. Donnino, unico collegio del Parmense con i candidati dello stesso orientamento politico, votarono in 483, di cui 298 per Verdi, che poi prevarrà facilmente al ballottaggio del 3 febbraio. Fu l’unico a battere un candidato sostenuto dalla «Gazzetta», che il 4 febbraio annunciò lapidariamente il vincitore, preferendo per il resto soffermarsi sulle bellezze delle Marche. I cinque eletti parteciparono alla seduta inaugurale della Camera il 18 febbraio e a quella storica della proclamazione del Regno il 17 marzo, in un’aula in cui sedevano anche Cavour, Farini, Cairoli, Bixio, Minghetti, Guerrazzi, Saffi, Crispi, Pasquale Mancini, Rattazzi e Garibaldi. Nel 1864 Cantelli, vicepresidente della Camera, si dimetterà per diventare prefetto, e Gallenga, che si trasferirà in Inghilterra, sarà sostituito da Guido Dalla Rosa.
Verdi aveva scranno vicino a Piroli, si annoiava, votava secondo quel che votava Cavour e durante le lunghe sedute scrisse la romanza «Il brigidino» e scambiava messaggini con Quintino Sella, che stimava tantissimo: a lui mandò, su un foglietto passato fra i deputati come si fa a scuola, la prima idea di una melodia della «Forza del Destino». Ma morto Cavour, anche se resterà deputato fino alla fine della legislatura nel 1865, Verdi perderà qualsiasi interesse per l’aula torinese, dalla quale si allontanerà sempre più spesso e volentieri preferendole persino, e conoscendolo è detta tutta, i 22 gradi sotto zero di San Pietroburgo.
Giuseppe Martini