Paolo Biondani e Leo Sisti, l’Espresso 29/7/2016, 29 luglio 2016
MEGA TANGENTI ENI, ECCO I DOCUMENTI
Il tesoro delle tangenti africane nel cuore degli Stati Uniti. Grosvenor Park è un’oasi verde con scoiattoli che saltellano da un albero all’altro, ruscelli che attraversano campi da tennis e piscine. Dal centro di Washington ci si arriva in 20-25 minuti con la linea rossa della metropolitana. Il centro abitato è Rockville, nel Maryland. Al numero 10.201 di Grosvenor Place si erge un condominio di 12 piani con balconi a colore alternato, azzurro e verde. Nell’ampio ingresso il "doorman", il portinaio, dice di non sapere nulla dei proprietari dell’appartamento 1703. Infilando in automobile la Tuckerman Lane, dopo 18 chilometri si arriva a Potomac. La villa al numero 11.209 di Hunt Club Drive, costruita nel 1967 su due piani, si nasconde dietro un albero maestoso: ha sei camere, quattro bagni, due garage. Qui, nel registro cronologico dei residenti, spuntano tre nomi che in Algeria contano moltissimo: Chakib Khelil, 77 anni, ex ministro, la moglie Najat Arafat, 74, e il figlio Khaldoun, 39.
L’appartamento e la villa nei dintorni della capitale americana sono le ultime tracce conosciute di un colossale fiume di soldi usciti da aziende del gruppo Eni e riversati in un arcipelago di società offshore gestite dal finanziere Farid Bedjaoui, inquisito come presunto tesoriere-ombra dell’ex ministro algerino dell’energia Chakib Khelil.
Il pm milanese Fabio De Pasquale, nella rogatoria inviata negli Usa il 15 marzo 2015, scrive che «l’investimento dei proventi della corruzione in proprietà immobiliari negli Stati Uniti costituisce un tipico modus operandi del gruppo criminale riconducibile a Bedjaoui».
Negli archivi di Mossack Fonseca, lo studio legale al centro dello scandalo dei Panama Papers, "l’Espresso" ha trovato gli atti di 12 delle almeno 17 società offshore utilizzate da Bedjaoui, secondo l’accusa, per ripulire e reinvestire un’enorme massa di presunte tangenti algerine: 400 milioni di dollari usciti dalle casse della società italiana Saipem. Altre carte riguardano un maxi-affare petrolifero in Nigeria che coinvolge i top manager dell’Eni. Sono i documenti, finora segreti, che chiudono il primo cerchio: dietro queste anonime società-cassaforte si nascondono proprio i potenti dell’Africa.
Gli affari internazionali nel settore dell’energia, gas e petrolio muovono masse impressionanti di denaro nero. Le indagini giudiziarie sull’Eni e i documenti dei Panama Papers evidenziano che solo il gruppo italiano, in due sole nazioni, Algeria e Nigeria, nel solo quinquennio 2007-2011, ha pagato più di un miliardo e mezzo di dollari a società offshore, che ora risultano controllate segretamente da faccendieri, tesorieri e familiari di politici africani corrotti. Un tesoro occulto che, a conti fatti, è venti volte più grande della storica maxi-tangente scoperta nel 1993-1994 dai magistrati di Mani Pulite: i fondi neri usati dalla Montedison di Raul Gardini per comprare i vecchi partiti che dominavano l’Eni e uscire dall’Enimont con una montagna di soldi pubblici.
ALGERIA, GAS E MAZZETTE
Tra il 2007 e il 2009 l’italiana Saipem, nata come società controllata dell’Eni, ha ottenuto dal governo algerino appalti per oltre 8 miliardi di euro, senza gara, per costruire gasdotti e grandi impianti per il metano. Nel 2013 i magistrati di Milano, con la Guardia di Finanza, scoprono che la Saipem, per quei contratti, ha versato 198 milioni di euro a una società offshore, Pearl Partners Ltd, gestita dal finanziere franco-algerino Farid Bedjaoui. A quel punto il suo fiduciario svizzero, vistosi sequestrare gli atti preparatori per la creazione di quella e molte altre offshore, ammette che Bedjaoui operava come un prestanome di lusso di Chakib Khelil, ministro algerino dell’energia dal dicembre 1999 all’aprile 2010.
L’inchiesta giudiziaria si è dovuta fermare ai fiduciari. Le offshore personali del ministro erano finora rimaste inaccessibili proprio perché registrate a Panama, uno Stato che non ha mai collaborato con la giustizia internazionale. Ora "l’Espresso" ha trovato quei documenti nei Panama Papers. Negli archivi dello studio Mossack Fonseca, svelati dal consorzio giornalistico Icij, ci sono gli atti di tre società panamensi che, attraverso Bedjaoui, hanno ricevuto decine di milioni provenienti dalla Saipem.
In particolare la Collingdale Consultant Inc., registrata a Panama il 10 luglio 2007, ha come unico azionista il figlio del ministro, Khaldoun Khelil, nominato anche rappresentante della società. Le altre due offshore hanno azioni al portatore (vietate dalle norme internazionali anti-riciclaggio): il nome del proprietario non è scritto da nessuna parte. Il 20 maggio 2005, però, a Panama viene registrato un mandato a rappresentare la seconda società, Carnelian Group Inc., e quindi a muoverne i soldi: a beneficiarne è Najat Arafat, moglie del ministro Khelil. Anche il potere di gestire la terza anonima panamense, Parkford Consulting Inc., viene concesso il 5 ottobre 2006 alla signora Arafat-Khelil.
Il 27 novembre 2007, quando Bedjaoui comincia a dirottare sulle offshore panamensi i milioni provenienti dalla Saipem, il rappresentante di Parkford e Carnelian cambia: il nuovo gestore è Omar Habour, grande amico, socio e presunto tesoriere del ministro Khelil. La sostituzione della signora Arafat avviene in poche ore, su richiesta del fiduciario svizzero Ludovic Guignet, che spiega così la novità a Mossack Fonseca: «Il mandato precedente va annullato. Secondo il beneficiario della società, si era trattato di un errore». Le tre offshore vengono chiuse nel 2013, quando secondo l’accusa hanno ormai reinvestito anche le ultime tangenti. Ciascuna delle tre società milionarie ha pagato solo una piccola «tassa unica» a Panama: 300 dollari all’anno.
Oggi i tesorieri Bedjaoui e Habour sono sotto processo a Milano, mentre l’ex ministro Khelil è indagato in Algeria. Il suo ordine d’arresto però è stato annullato. E il procuratore algerino che collaborava con i pm italiani è stato trasferito.
Nei Panama Papers intanto spunta un’altra offshore sospetta, finora sconosciuta. La Teampart Capital Holdings Limited, costituita alle British Virgin Islands, ha registrato come rappresentante, dal 2005 al 2010, una certa Rym Sellal: la figlia dell’attuale capo del governo algerino, Abdelmalek Sellal. Prima di lei, il mandato a gestire la società era di Omar Habour, il presunto tesoriere di Khelil, come spiega un documento firmato da Guignet, il fiduciario di Bedjaoui a Losanna.
bustarelle anche in ITalia
La massa di fondi offshore per il gas algerino non è finita solo all’estero, ma è in parte rientrata nelle tasche di alcuni ex manager italiani della Saipem, oggi controllata direttamente dallo Stato con la Cassa depositi e prestiti. Tullio Orsi, ex presidente di Saipem Algeria, ha incassato da Bedjaoui almeno 5 milioni e 290 mila euro; il suo ex superiore diretto, Pietro Varone, almeno 5 milioni e 170 mila euro.
Le tangenti tornate in Italia sono state scoperte dalla Finanza dopo una perquisizione a casa di Regina Picano, ex moglie di Varone fino al 2011. Tra le carte c’era un appunto con il numero di un conto libanese e il nome di una offshore panamense gestita da Bedjaoui. La signora ha dichiarato che erano cose di suo marito, mentre Varone giurava di non saperne nulla. Già prima di essere arrestato, però, Varone ha ammesso che la sua società italiana Ager Falernus, proprietaria di una tenuta agricola da dieci milioni, ha ricevuto da Bedjaoui «finanziamenti a fondo perduto» per due milioni e mezzo di euro. Nei Panama Papers ora "l’Espresso" ha scoperto un mandato a favore di Regina Picano: il 10 luglio 2007 anche lei è diventata rappresentante della Collingdale, accanto all’altro gestore Omar Habour. Il capitale della società-cassaforte risulta diviso in due certificati azionari al portatore, che rafforzano i sospetti su una spartizione: una parte per la famiglia del manager italiano, l’altra per quella del ministro algerino, beneficiaria ovviamente anche di altre offshore.
Varone oggi è libero ed è sotto processo a Milano. Tullio Orsi ha invece ammesso le sue responsabilità e ha patteggiato una condanna a due anni e dieci mesi. Nelle sue confessioni, l’ex dirigente della Saipem Algeria ha aperto il secondo fronte del processo: costi gonfiati per creare altre maxi-tangenti. Orsi ha parlato di «incontri riservati all’hotel Bulgari di Milano» tra Varone, Bedjaoui e «rappresentanti delle imprese subappaltatrici Ogec e Lead». Alla fine Varone gli ordinava di «mettere il 3 per cento in più» sui prezzi, già «esagerati», di quei contratti. A pagare è la Saipem. Ma i subappaltatori girano il grosso delle «maggiorazioni» alle offshore di Bedjaoui. Secondo gli ultimi documenti depositati dai magistrati di Milano, le casseforti panamensi hanno incassato la bellezza di 115 milioni di dollari dalla Lead e circa 100 milioni di euro dalla Ogec.
Proprio questo è il troncone d’inchiesta che ha coinvolto anche l’ex numero uno dell’Eni, Paolo Scaroni, che fu nominato dal governo Berlusconi. Nessuno lo accusa di aver incassato soldi in nero. Il top manager, che respinge ogni accusa, è stato indagato per una serie di incontri con l’allora ministro Khelil, per ottenere il via libera algerino alla scalata dell’Eni alla società First Calgary, titolare di un enorme giacimento a Menzel. Con il sistema dei costi gonfiati la Saipem, in questo caso, avrebbe pagato tangenti al posto della capogruppo Eni.
Interpellata da "l’Espresso", «l’Eni ribadisce la sua estraneità da qualsiasi condotta illecita in Algeria». E Scaroni ha rivendicato di aver «licenziato»
i manager coinvolti della Saipem.
Il finanziere Bedjaoui ha gestito anche i rapporti con altre multinazionali straniere. Sui conti libanesi della sua rete di offshore, secondo gli atti giudiziari, sono transitati ben 600 milioni di dollari. Soldi finiti nei paradisi fiscali, che il popolo algerino non ha mai visto.
Per compensare i rischi del mestiere, Bedjaoui si è trattenuto una fortuna. A Parigi ha una casa di mille metri quadrati nel sedicesimo arrondissement. Possiede anche uno yacht di 43 metri. E quadri di Dalí, Miró, Andy Warhol. Ma il top è a New York, dove ha acquistato tre case per 50 milioni di dollari, compreso un condominio sulla quinta strada, con vista sul Central Park. L’affarista franco-algerino è appassionato anche di gioielli italiani. Il 6 maggio 2008 ha regalato «un anello in platino con brillanti e smeraldo naturale di 30.13 carati» alla moglie libanese, Rania Lisa Dalloul. La fattura è stata inviata dalla Antica Orologeria Operti di Cagliari alla suite di Bedjauoi a Dubai. E non è l’unica. Dalla Sardegna sono partiti per Dubai anche «un bracciale d’oro con tsavorite e diamanti gialli e neri di 152 grammi», «un anello oro con ametiste e diamanti gialli da 40 grammi» e un «anello d’oro con topazio azzurro, zaffiri rosa e diamanti di grammi 25». Le fatture di oltre 115 mila euro le paga in parte lui personalmente, il resto tramite una offshore, Justin Invest Development, che ha sede nel quartiere generale di Mossack Fonseca a Panama.
A Milano il processo per le presunte maxi-tangenti algerine è fermo alle battute iniziali. Mentre il tribunale di Algeri, nel giudizio di primo grado che coinvolge anche la Saipem, ma riguarda un unico appalto del 2009, ha condannato la società italiana solo per le «maggiorazioni dei prezzi» ottenute «beneficiando dell’influenza» di funzionari algerini: la pena inflitta è «una multa di soli 34 mila euro», come informa la società italiana, che annuncia un ricorso alla Corte Suprema.
In nigeria corruzione totale
Ricchissima di gas e petrolio, la più popolosa nazione africana ha una classe dirigente tra le più corrotte del mondo. Nei Panama Papers compaiono offshore controllate da tre ex ministri nigeriani del petrolio e decine di politici, militari e manager. L’ex dittatore Sani Abacha, un generale sanguinario deposto negli anni Novanta, si era visto sequestrare dal procuratore italo-ginevrino Bernard Bertossa, solo in Svizzera, circa tre miliardi.
Oggi l’Eni è sotto indagine a Milano per un affare nigeriano di livello mai visto: un diluvio di tangenti da oltre un miliardo. Questa indagine non ha niente a che vedere con il recente fascicolo aperto da un pm di Siracusa su un ipotetico complotto contro l’attuale amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, e il premier Matteo Renzi che lo ha nominato.
L’affare incriminato a Milano viene siglato il 29 aprile 2011 dall’allora presidente della Nigeria, Goodluck Jonathan. L’Eni ottiene la licenza di sfruttare un mega-giacimento di petrolio chiamato Opl 245. In cambio versa un miliardo e 92 milioni di dollari al governo di Lagos, su un conto bancario a Londra. L’accordo, dopo lunghe trattative, era stato chiuso nel novembre 2010 personalmente da Scaroni.
La presunta maxi-corruzione, su cui indagano anche le autorità britanniche, svizzere, americane e olandesi (che hanno perquisito la Shell, socia nell’affare), parte da un fatto ormai accertato: di tutto quel tesoro incassato dal governo di Lagos, al popolo nigeriano non è arrivato un soldo. E neppure allo Stato. Nel maggio 2011, infatti, la Nigeria trasferisce l’intero prezzo pagato dall’Eni sul conto elvetico di una misteriosa offshore. Il super-bonifico è tanto sospetto che la Banca della Svizzera Italiana lo rifiuta. Quindi il piano cambia: i soldi vengono sparpagliati su altre offshore.
Il grosso sparisce il 23 agosto 2011, quando 801 milioni di dollari arrivano alla Malabu Oil & Gas Ltd. Dietro questa offshore si nasconde Dan Etete, ex ministro del petrolio nel regime militare di Abacha. Pochi giorni dopo, tra il 29 agosto e il 6 settembre 2011, la Malabu riversa 523 milioni ad altre tre offshore, tutte riconducibili, secondo l’accusa, al politico nigeriano Abubakar Aliyu. Gli inquirenti sospettano che fosse un tesoriere occulto dell’allora presidente Jonathan. Difficile però trovare riscontri bancari: quasi tutti i soldi sono stati prelevati in contanti. Secondo le prime indiscrezioni, sarebbero stati portati all’estero su aerei privati. Jet carichi di banconote partiti dall’Africa per i paradisi fiscali.
In attesa di conferme ufficiali, la storia della Malabu basta già a chiarire che qui la corruzione è tutto. Quella offshore ha infatti ottenuto la licenza Opl 245 nel 1998, quando ministro del petrolio era proprio Etete, che in pratica si è auto-assegnato il giacimento, dietro lo schermo della società anonima. All’epoca l’altro socio occulto della Malabu, secondo le indagini, era Mohamed Abacha, il figlio del dittatore. Quel regime ha venduto il giacimento per soli 20 milioni. E la Malabu ne ha versati appena due. Tutto il resto è finito in tangenti: un miliardo e 90 milioni di dollari. Ora si tratta di scoprire con quali altri beneficiari abbia dovuto spartirseli Etete.
I Panama Papers svelano anche un inedito retroscena cinese: nel 2006 la Malabu firma un accordo riservato con un’altra offshore, l’anonima panamense Telcraft. Il suo misterioso titolare garantisce di poter rivendere il 40 per cento del giacimento alla «Sinopec, una società petrolifera interamente controllata dal governo cinese». In cambio, l’amico dei capitalisti comunisti chiede il 10 per cento. L’affare salta perché la Malabu perde la licenza. Che poi le viene riassegnata gratuitamente da un altro ex ministro nigeriano, ricompensato da Etete con dieci milioni di dollari, sempre targati Eni.
Nella complessa vicenda sono indagati anche Descalzi e Scaroni, che respingono ogni accusa. L’Eni ribadisce a "l’Espresso" la sua «estraneità»: la società italiana ha trattato solo con il governo, a cui ha versato l’intero prezzo, senza accettare alcun mediatore.
In un processo a Londra, però, un sedicente mediatore nigeriano, Emeka Obi, è riuscito a scucire a Etete 112 milioni di dollari. A fine dicembre 2012, nella speranza di vincere quella causa, l’ex ministro lo aveva accusato di avergli chiesto «200 milioni di dollari da destinare a quattro manager italiani». L’Eni invece replica che Obi, come documenta il suo contratto, lavorava proprio e soltanto per Etete. Incassati i soldi, però, nel luglio 2013 Obi li deposita su quattro conti svizzeri. E così circa 20 milioni di franchi elvetici finiscono a una offshore, chiamata Foxfin, che i pm collegano a un finanziere italiano, Gianluca Di Nardo. Un partner del potente pregiudicato Luigi Bisignani, intercettato a Napoli mentre chiedeva a Scaroni e Descalzi di non escluderlo da quell’affare. In attesa delle prime verità giudiziarie, le indagini sulle tangenti nigeriane restano apertissime.