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 2015  novembre 11 Mercoledì calendario

«E ORA, UN FIGLIO». INTERVISTA A NAOMI CAMPBELL

Tutti i giornalisti che hanno intervistato Naomi Campbell hanno sempre qualcosa da raccontare sui suoi ritardi. Fa parte dell’esperienza. C’è chi si vanta di avere eccezionalmente aspettato solo trentadue minuti e chi ha calcolato che l’attesa media sta tra le due e le quattro ore.
Nel mio piccolo, ho anch’io dei numeri da dare. Su tre incontri, ho contato un totale di circa diciotto ore di attesa. La prima volta furono dodici. Poi, quando arrivò nello studio di Parigi dove era stato fissato l’appuntamento, Naomi decise di rimandare l’intervista a data da destinarsi. Anni dopo, all’hotel Dorchester di Londra aspettai due ore e quaranta minuti. Questa terza volta, pochi giorni fa, sempre a Londra e sempre all’hotel Dorchester, ho atteso tre ore e 25 minuti.
Li ho trascorsi interrogandomi sul motivo di questi ritardi.
Non i motivi ufficiali, dichiarati (quello più recente riguardava l’essere «bloccata in una riunione», in altri casi c’erano di mezzo il jet lag o improvvisi malesseri), ma i motivi, diciamo così, profondi.
Perché Naomi arriva sempre così maledettamente e regolarmente (che ossimoro, eh?) in ritardo alle interviste?
Lo fa perché vuole stancare il giornalista, trovarlo fiaccato dal tedio, ormai privo di volontà? Lo fa per una forma estrema di timidezza? Lo fa perché vuole dimostrare il suo potere, è un «senza di me tanto non si comincia» aggressivo e sprezzante?
Avendo tempo in abbondanza da ammazzare, nell’attesa mi sono anche messa in comunicazione con una persona che la conosce bene e che mi ha illuminato: «Fa così perché è incapace di dire no. Si occupa di un sacco di cose, è circondata da gente che le chiede favori di continuo e lei si danna l’anima per sistemare tutti».
Sì, è vero: Naomi è molto generosa (e lo dimostra anche la sua articolata attività umanitaria) ma è anche caratteriale (solo i ritardi sono più leggendari delle sfuriate), è la protagonista di una vita al massimo, dove tutto – trionfi e cadute, amori e dissapori – è esagerato.
Ma sbaglia chi la considera una donna fragile. Se lo fosse, non sarebbe diventata la star che è e non sarebbe ancora qui, in copertina a 45 anni, venerata da tutto il fashion business e, adesso, anche dal mondo dello spettacolo, con due ruoli in altrettante serie televisive di successo (Empire e American Horror Story: Hotel).
Nell’ultima impresa, di cui qui raccontiamo, si è fatta anche stilista di lingerie. Ha firmato una capsule collection tutta pizzi e trasparenze per il marchio italiano Yamamay, sexy come solo lei può essere e dal nome geniale Iamnaomicampbell che è, poi, anche il nome del suo account Instagram (2,1 milioni di follower). Uno dei pezzi è decorato da una spilla staccabile a forma di pantera, l’animale simbolo di Naomi. «Ha dato molti spunti anche sulla vestibilità, è una grande professionista», dice Gianluigi Cimmino, a.d. di Yamamay.
C’è da chiedersi perché una donna così bella, ricca e certamente intelligente sia ancora sola e non abbia messo su famiglia, come altre top model sue coetanee o anche più giovani. E c’è da chiedersi se questa irrequietezza che trasmette a ogni incontro, se questa smania di darsi da fare, di mandare messaggi e scrivere liste anche mentre ti sta parlando, come se tutto fosse un unico, grande, insostenibile caso di vita e di morte, non abbia anche a vedere con una segreta solitudine, forse più profonda di quel che si potrebbe pensare.

Cominciamo?
«Sì, sì, cominciamo subito perché posso fermarmi solo venti minuti, mezz’ora al massimo. Facciamo in fretta. Ho un dolore infernale alla schiena, devo contattare il mio agopuntore al più presto».
Come è andata con Yamamay?
«Avevano già fatto qualcosa del genere con Jennifer Lopez e l’idea mi è piaciuta. E poi, ritrovare Mario (Testino, ndr) è sempre una gioia».
Gisele Bündchen si è ritirata dalle passerelle a 35 anni, lei ne ha dieci di più e non sembra voler smettere.
«Non ho intenzione di farlo, continuerò finché mi diverto».
Quando ha iniziato, immaginava una carriera così longeva?
«No, non ho mai avuto grandi aspettative né obiettivi precisi. Ho vissuto alla giornata, però sono sempre stata molto decisa nel prendermi dei rischi, senza paura. Anche perché mi piacciono le sorprese. Adesso, per esempio, questa cosa di fare l’attrice a 45 anni è stata una sorpresa fantastica».
In Empire, interpreta una donna che sta con un ragazzo molto più giovane. Una «cougar», come si dice.
«Uh, che brutta parola, la detesto. Anche perché la vita comincia a 40 anni, o almeno è iniziata a 40 anni per me. Per esempio, fino a un paio di anni fa facevo molta fatica a posare in lingerie, mi sentivo terribilmente a disagio. Invece, adesso, ho un rapporto molto più risolto con il mio corpo e la mia immagine».
Se potesse tornare indietro, cambierebbe qualcosa della sua vita?
«Francamente sì. Io sono sempre stata molto disponibile e leale verso gli altri, ho sempre pensato che tutti fossero dei libri aperti, ma purtroppo oggi sono molto pentita di aver lasciato che alcune persone siano entrate nella mia vita, perché mi hanno sfruttata e ferita. Ho imparato grandi lezioni, a mie spese. Oggi sono molto più scettica, ma credo anche più matura».
Si riferisce all’amore?
«In generale».
Nel 1990, assieme a Cindy Crawford, Linda Evangelista, Tatjana Patitz e Christy Turlington, girò il video di Freedom! ’90, di George Michael. Dirigeva David Fincher: com’era?
«Timidissimo, tenerissimo. Dio, quanto mi sono divertita in quel periodo...».
I favolosi anni Novanta. Come sono stati per lei?
«Mi piaceva tutto: il lavoro, la moda, l’arte, la musica. Era bello viaggiare, era bello divertirsi, una meraviglia assoluta. Però leggo che i Novanta stanno tornando di moda, mi pare un’ottima notizia!».
Nel ’91 lei disse: «Posso anche essere considerata una modella famosa, ma guadagno molto meno delle altre perché sono nera». È ancora così?
«Per quanto mi riguarda, la situazione è cambiata. Non lavoro mai per meno di quello che credo di valere e dialogo solo con chi mi rispetta. Però per le modelle nere, in generale, la situazione è sempre la stessa: sono discriminate e fanno molta fatica a dire di no anche a lavori sottopagati, perché ne hanno bisogno».
Nel 1988, Yves Saint Laurent minacciò di ritirare la pubblicità da Vogue Francia se non l’avessero messa in copertina. E ottenne quello che voleva. Che cosa ricorda di quel momento?
«Eravamo in studio, avevamo finito di scattare le foto con i modelli della couture, e io chiesi se sarei stata in copertina. Mi dissero di no, perché una nera non ce l’avevano mai messa. Non era cattiveria o razzismo, era proprio che siccome non si era mai fatto, neanche gli sarebbe venuto in mente, capisce? Allora andai da Monsieur Saint Laurent, glielo raccontai in lacrime. Ero tristissima e arrabbiata. E lui prese le mie parti. Fu un gesto d’amicizia grandioso e indimenticabile».
Lei ha anche prodotto e condotto un talent show per modelle, The Face. Alle ragazze ripeteva: «Non siete qui per fare amicizia». Come dire: questo è un ambiente molto competitivo, preparatevi.
«Lo è».
Chi vince la competizione?
«Alla fine, vince chi è davvero sincero e onesto con se stesso».
Lei lo è?
«Ci provo. Non è facile guardarsi allo specchio e riconoscere, per esempio, che si è infelici, che c’è qualcosa che ti fa male e che devi avere il coraggio di cambiare direzione. Io l’ho fatto, più di una volta. E sono pronta a farlo ancora».
Per esempio?
«Vorrei un figlio. Succederà quando succederà, ma lo desidero molto. E se non dovessi riuscire a diventare madre naturalmente, lo adotterò».
Pensa che il pubblico abbia un’opinione sbagliata di lei?
«Di sicuro. Ma non mi interessa cambiarla, continuino pure a pensare quello che vogliono. A me interessa quello che pensano gli amici che mi vogliono bene e a cui io voglio bene».
Che ne pensa delle recenti uscite dei designer da alcune maison, Raf Simons via da Dior, Alber Elbaz via da Lanvin?
«La penso come la giornalista Suzy Menkes, che ha scritto che gli stilisti sono sottoposti a un indicibile stress dal sistema. Una volta avevano tempo per viaggiare, trovare ispirazione, sperimentare. Adesso sono spesso trattati come macchine e a volte cacciati via a male parole. Le collaborazioni possono anche finire, ma sarebbe bello salutarsi sempre con gentilezza».
Lei ha girato – e gira – il mondo intero. Ci sono posti che vorrebbe visitare dove non è ancora stata?
«I primi della mia lista sono la Cambogia e il monte Rushmore».
So che ha molti numeri di telefono. Esiste una persona che li conosca tutti?
«No, nessuno».