Marcella Andreoli, L’Europeo: Cronaca nera, n.4 2006 - anno V, 25 marzo 2015
Miceli Crimi racconta il finto sequestro di Sindona
Siamo riusciti a incontrare e a intervistare Joseph Miceli Crimi, medico personale di Michele Sindona e suo grande amico. Lo abbiamo incontrato appena uscito dal carcere, in libertà provvisoria grazie all’abilità del suo difensore, l’avvocato Armando Radice. È accusato di aver aiutato Sindona nel falso sequestro, quello che il bancarottiere ideò per rientrare segretamente in Italia e tesservi una trama di ricatti con cui sperava di indurre i suoi potenti amici a salvarlo sia dal processo americano per il fallimento della Franklin Bank, sia dai guai giudiziari italiani. Sessantun anni, massone di grado 33, palermitano, docente di chirurgia estetica, per ventanni consulente medico della polizia di Palermo, Miceli Crimi è dal 1972 cittadino statunitense con un ruolo di primo piano nella comunità italo-americana. I suoi rapporti con alcuni boss di Cosa nostra, come i potenti fratelli Gambino, gli sono costati l’arresto per associazione per delinquere di stampo mafioso, reato dal quale infine è stato prosciolto. Miceli Crimi è un personaggio misterioso, pieno di ciliari e scuri. Se ammette di essere massone, nega di essere mafioso. Se si dice amico intimo di Sindona e suo ammiratore, non è disposto però ad ammettere di conoscere tutti i suoi segreti. È potente, ma afferma di essere stato usato dal suo grande amico. È questo personaggio che ha consentito (lui sostiene involontariamente) di risalire dal viaggio segreto in Italia di Sindona al capo della loggia P2, Licio Gelli, e alla famosa valigia, piena di documenti, che ha fatto cadere il governo Forlani e ha consentito di avere finalmente un’idea precisa sull’importanza della P2.
Per avvalorare la tesi del sequestro Michele Sindona si fece sparare a una gamba. Fu lei a farlo. Come andò?
Le confesserò che non si trattò di un colpo d’arma da fuoco. Certo, Michele Sindona aveva bisogno di un alibi per rendere credibile il sequestro. «Mi devi sparare alle gambe», mi diceva in continuazione. Io non ero d’accordo, non me la sentivo di sparargli. Lui insisteva finché mi fece giurare che l’avrei fatto.
E allora?
Ci pensai e preparai i ferri chirurgici.
I ferri chirurgici?
Sì. Come lei sa, io sono un professore di chirurgia estetica. Solo in Italia ho compiuto 12mila interventi e chissà quanti negli Stati Uniti. Ebbene, pensai a una sparatoria simulata. Se c’era stato un sequestro simulato, perché non simulare una sparatoria? Così operai Sindona per far credere che fosse stato vittima di un colpo di pistola.
Ciò accadde nell’ottobre 1979. Da quanto tempo lei conosceva Sindona?
Dal 1977. Lo conobbi a New York, dove vivo da vent’anni facendo la spola con Palermo. Fui io a telefonargli e a chiedergli un incontro. Prima di allora, non lo avevo mai visto. Sui giornali italiani era apparso un articolo nel quale si sosteneva che io ero amico di Michele Sindona e di Licio Gelli, e che, essendo un trentatreesimo della massoneria, mi stavo adoperando, addirittura per conto del ministro del Tesoro americano dell’epoca, John Connally, per unificare le logge massoniche italiane. È vero che, da un anno, lavoravo a un progetto di riunificazione della massoneria, ma lo facevo per conto mio. Pensai che Sindona potesse darmi una mano. E così lo conobbi. Fui molto colpito dalla sua intelligenza e dalla sua cultura. Insomma ne subii il fascino. Pensai che erano state dette e scritte menzogne sul suo conto: mi parve una persona straordinaria.
Sindona era d’accordo con il suo progetto?
Mi indicò una persona che avrebbe potuto aiutarmi. Era Licio Gelli. Gli telefonò personalmente annunciandogli la mia visita. Fu così che conobbi il gran maestro della loggia P2. L’appuntamento venne fissato all’hotel Excelsior di Roma, sempre nel 1977. Gelli mi parve gentile e davvero autorevole. Ricordo che, quel giorno, mi diede la precedenza: qualcuno attendeva nel corridoio...
Chi era?
Gelli mi disse che era un sottosegretario, ma che poteva tranquillamente aspettare. Non me ne stupii. Sapevo che Gelli era molto potente. Non ignoravo che alla sua loggia facevano capo le persone più importanti del Paese. Non era nemmeno un mistero che Gelli era l’unico a poter entrare nello studio di Giulio Andreotti, a Palazzo Chigi, senza farsi preannunciare e senza bussare. Ebbene Gelli mi ascoltò con attenzione, fissandomi poi un nuovo appuntamento. Disse che sarebbe venuto a trovarmi negli Usa.
Gelli le diede la precedenza sul sottosegretario perché era interessato al suo progetto o perché lei era un amico di Sindona?
Non lo so. Certo fu sempre molto gentile con me.
E perché lei divenne uno dei pochi amici di Sindona?
Come le dicevo, un po’ perché ne subivo il fascino e un po’ perché lo ritenevo molto intelligente. Se dovessi fare un paragone fra Gelli e Sindona, potrei dire che il primo è un politico tra i più abili e scaltri, ma che Sindona lo batte due a zero sul piano culturale. Michele diceva di lui: «Se soltanto avesse un po’ più di cultura, Licio potrebbe diventare un capo di Stato».
Se stimava così tanto Gelli, come mai proprio lei mise i giudici sulle sue tracce? Non è stato forse lei a far trovare la famosa valigia della P2?
Forse, ma involontariamente.
Gelli era amico di tanti uomini politici, ma Sindona non era da meno. Che cosa sa dei rapporti tra Sindona e i politici?
Ricordo di aver visto una fotografia di Sindona assieme ad Andreotti. E Sindona diceva spesso che Giulio gli telefonava e che, quando era negli Usa, gli faceva visita.
C’erano rapporti tra Sindona e la mafia?
Di questo non so proprio nulla.
È mai possibile? Lei non può negare di avere un grosso ruolo nella comunità itaio-americana e di essere in contatto con i Gambino, i boss di Cosa nostra...
Deve sapere che un italiano che vive a New York ogni tanto va a prendere un caffè in un bar italiano. Ci va spesso con un amico, e là, al bar, incontra altri amici. Si parla siciliano, tutti si conoscono, si stringono nuove amicizie.
Naturalmente ancor meno saprà del ruolo della mafia nel falso sequestro di Michele Sindona.
Appunto. Posso dire solo che Michele cominciò a parlarmi del sequestro nel giugno del 1979. Mi disse: «Ho bisogno di alcuni documenti. Urgentemente. Sono documenti miei, ma non ne ho la disponibilità: vorrei riaverli senza però farne richiesta diretta a chi li ha in mano. Per questo motivo verrò in Sicilia al più presto». E aggiunse: «Appena sarò arrivato, ti chiamerò. Può darsi che abbia bisogno di te».
In che senso lei doveva dare una mano a Sindona?
Quando mi parlò dei documenti, Sindona illustrò anche un progetto di golpe che avrebbe dovuto essere attuato in Sicilia per staccarla dall’Italia. Le confesserò che quel progetto mi piaceva, mi trovava d’accordo, e per questo assicurai Michele che avrei preso contatti con almeno un centinaio di persone residenti in Sicilia e che avrebbero condiviso quel piano.
A proposito di questo golpe Sindona non le parlò anche di appoggi politici?
So che aveva grosse amicizie negli Stati Uniti. Mi confidò che gruppi americani, con larga influenza sulla Sicilia...
Gruppi mafiosi?
... Si sarebbero mossi al momento opportuno. Poi accennò a uomini del Pentagono, e non a vanvera perché mi mostrò la lettera in cui un ammiraglio americano garantiva la protezione del Pentagono al progetto del golpe. Mi disse Michele: «Se hai rapporti con organi governativi americani non farne parola, perché il golpe, se può far piacere al Pentagono, può dispiacere ad altri centri di potere».
E gli appoggi nel mondo politico e militare italiano?
Lui non me ne accennò. So invece che si proponeva di far capo all’organizzazione massonica.
Dunque Gelli sapeva di questo progetto?
No, no.
Mi dica: Gelli è ancora potente?
Sì, sì.
Sindona le spiegò che tipo di documenti cercava in Italia?
Lui diceva sempre: «Se riesco ad avere quei documenti, uscirò innocente da tutti i processi».
È proprio sicuro che quei documenti non fossero quelli di Gelli?
A me Michele non l’ha mai detto. Gelli mi diede invece l’assicurazione che avrebbe inscenato una campagna di stampa in favore di Sindona. Disse: «Spero, da qui a ottobre, di riuscire a fare qualcosa di importante, di modificare almeno l’opinione pubblica in suo favore con qualche intervento sui giornali».
E Sindona come valutava le assicurazioni di Gelli?
Ne era soddisfatto. Disse che Gelli si comportava bene.
Chi oltre a lei conosceva il progetto dell’autosequestro di Sindona?
Poche altre persone, tra cui suo genero, Piersandro Magnoni. Penso, però, che fu un’idea tutta sua e che gli altri in un certo senso la subirono. Forse non erano d’accordo, ma quando Sindona si mette in testa qualcosa... Dal canto mio, su invito di Michele, partii per la Sicilia a luglio: secondo gli accordi, doveva attenderne l’arrivo, previsto per la fine di quel mese. Il progetto di golpe era in cantiere per la metà di agosto, in un periodo in cui, come diceva lui, c’è poca gente in città. Ci fu un certo ritardo. Solo ai primi di agosto lessi sui giornali: “Michele Sindona rapito da un’organizzazione terroristica”. Dissi tra me e me: tutto bene. Invece le cose non erano andate per il verso giusto...
Che cos’era successo?
Dopo alcuni giorni arrivò finalmente una telefonata a Palermo. Era lui, Sindona. Mi chiamava da Atene: «Sono in difficoltà, mi sento confuso, anche quelli che mi hanno accompagnato [Joseph Macaluso e Anthony Caruso, due boss di Cosa nostra, ndr] sono in difficoltà. Per carità, dammi una mano». E allora mi diedi da fare. Mi misi in contatto con alcuni amici massoni e mi precipitai ad Atene assieme a tre persone. Organizzammo il viaggio di Michele via mare, con approdo a Brindisi. Sindona viaggiò sotto il nome di Buonamico.
Lei credette davvero che Sindona fosse in difficoltà, che fosse stato lasciato solo ad Atene da due boss di Cosa nostra?
A me diede proprio l’impressione di un uomo smarrito, rimasto solo. Proprio così.
Il fatto che lei sia stato per vent’anni il medico della polizia di Palermo le fu di aiuto?
No, no. Anzi. Furono proprio quelli della pubblica sicurezza ad arrestarmi, il 5 maggio dell’anno scorso, senza nemmeno usarmi una gentilezza.
Dopo l’arrivo in Italia, a Brindisi, lei trovò un rifugio per Sindona a Palermo, nella casa di una conoscente. E poi?
Lui prese alloggio nel centro di Palermo dove installò un suo piccolo quartier generale. Si scriveva da solo i volantini del sequestro, firmandoli con una sigla di fantasia perché risultasse opera di brigatisti rossi. Ci teneva a far credere che era stato rapito da un’organizzazione terroristica di sinistra, a passare per vittima dei comunisti.
Questo gli serviva per il suo processo americano e per facilitare l’operazione di Gelli sulla stampa italiana?
Può darsi. Nei volantini diceva che era sottoposto a un processo proletario. Poi li affidava, ben custoditi in buste sigillate, ad alcuni corrieri, che si recavano da lui proprio per questo e che poi li portavano negli Usa, dove venivano imbucati. Non conoscevo i corrieri, né chi li mandasse da Sindona.
Erano dei mafiosi?
Non li conoscevo, ripeto.
Quali compiti affidò a lei?
Quello di andare a New York a trovare sua moglie, avendo cura di dire che ero molto preoccupato per il sequestro.
Ma se era un sequestro simulato...
Sindona mi aveva imposto di accreditare sempre la tesi del sequestro. Era stato tassativo. Solo con il genero, Piersandro Magnoni, Michele mi disse di discutere liberamente. Poi capii il perché: quando lo incontrai a New York, Magnoni mi disse: «Fai bene la tua parte, perché so che l’Fbi ha collocato alcune microspie nell’appartamento di Sindona e, quello che dirai sarà registrato, parola per parola».
La moglie di Sindona cosa le disse?
Mi ringraziò molto, poveretta. E mi disse che, in caso di bisogno, si sarebbe rivolta a me. Però non si fece viva. Si fece vivo, invece, il Magnoni. Mi invitò nella residenza di un suo amico, Macaluso.
Proprio quello che aveva accompagnato Sindona ad Atene?
Sì, proprio lui.
I due non le parlarono mai dei documenti che Sindona voleva recuperare?
No. Quando tornai a Palermo da Sindona mi resi conto che non avevo particolari messaggi da portargli perché lui telefonava spesso a New York. Michele era tranquillo, vedeva molta gente, circolava per la città e pranzava al ristorante. Tornato a casa, scriveva volantini e lettere.
Anche le lettere di minaccia a Cuccia?
Non lo so. So solo che Sindona definì Cuccia il suo nemico numero uno. Aggiungeva però che gli aveva fatto sapere di non aver bisogno di ricorrere a intermediari per fargli del male. «Se lo decidessi», diceva, «lo farei di persona, guardandolo negli occhi».
Strano, se poco prima tre killer spediti da Sindona avevano ammazzato Giorgio Ambrosoli.
Sindona non mi parlò mai di lui.
Come spiega la comunicazione giudiziaria che lei ha ricevuto per quel delitto?
Quando la vidi, mi misi a ridere. Mai visto o conosciuto Ambrosoli.
E poi?
Rividi Sindona all’ospedale di New York, custodito da due agenti dell’Fbi, e, successivamente, nella sua abitazione. Michele era sempre molto preoccupato.
Di Gelli sentì parlare ancora?
Sindona me ne diceva bene e seppi da lui che Gelli sarebbe andato a trovarlo di lì a poco. Alla fine dell’anno [siamo nel 1979, ndr, Sindona cambiò umore e mi confidò: «Sono tranquillo, ho ricevuto quelle cose che dovevo ricevere. Ora posso affrontare il processo». E così tornai a Palermo con il cuore sollevato. Ma di lì a poco venni a sapere del suo arresto.
Qualcuno aveva parlato?
Chissà.
Marcella Andreoli – L’Europeo 1981 n. 34