Enzo Biagi, Il Fatto Quotidiano 26/9/2013, 26 settembre 2013
DALLA CHIESA “MORIRÒ, SONO RASSEGNATO”
Generale Dalla Chiesa, la chiamano il “piemontese di ferro”, perché?
Se il riferimento è alla coerenza, alla costanza, alla perseveranza, all’amore per l’ordine e per lo Stato, io sono lieto di essere definito piemontese; però è anche vero che di tanto in tanto vengono in superficie: l’estemporaneità, l’impulsività, la fantasia, la trasparenza, anche un po’ di humour che tradiscono le mie origini emiliane.
Perché un giovane decide di diventare ufficiale dei carabinieri?
Perché crede nei valori e ha bisogno di continuare a crederci, ma con la consapevolezza che la sua vita sarà dedicata alla difesa dello Stato, delle Istituzioni e della stessa collettività da cui proviene.
C’è qualche altro mestiere che le sarebbe piaciuto fare?
Da piccolo il tranviere, poi mia madre, sbagliando, pensava che dovessi intraprendere la carriera diplomatica. C’era anche chi mi suggeriva di fare il direttore d’orchestra.
Generale, chi ha preso come esempio da seguire, come modello dalla storia, dalla vita?
Dalla storia no, non mi va di recitare e il mio temperamento non me lo avrebbe concesso. Dalla vita sì, sono i maestri che mi hanno formato da giovane e i loro esempi mi hanno sempre accompagnato.
Suo padre Romano è stato anche lui un carabiniere, cosa ha significato per lei?
Lui è uno dei maestri ai quali mi sono ispirato e i suoi insegnamenti mi accompagnano nella vita.
Quali sono i fatti che hanno contato di più?
Sotto il profilo militare, durante la Resistenza, come ufficiale dell’Arma mi trovai alla testa di bande di patrioti e fui responsabile della vita di intere popolazioni; sotto il profilo umano: l’incontro con mia moglie Dora.
Generale, oggi comanda l’Arma dalla Toscana al Trentino, ed è considerato il maggior esperto di antiterrorismo, può descrivere un terrorista?
Dottor Biagi le risponderò azzardando la distinzione tra terrorista ed eversore. Terrorista può essere anche un caso isolato, un anarchico. Certamente non iscritto in un processo che abbia alle sue spalle un retroterra culturale e davanti una strategia da condurre in porto. L’eversore, invece, lo vedo inserito non solo in un retroterra estremamente ideologizzato, ma all’interno di una strategia che prevede la violenza.
Si può fare una specie di radiografia dei terroristi per vedere se si tratta di figli del sottoproletariato , di delusi del ’68, dei rampolli delle borghesia o dei virgulti di una pseudocultura cattolica-marxista?
Se si dovesse fare quella radiografia che lei chiede verrebbero a emergere più marcatamente delle ombre per quanto riguarda gli ultimi tre gruppi da lei indicati. Nel periodo in cui fui a capo di quel particolare organismo preposto, dal settembre ’68 al dicembre 1979, alla lotta contro il terrorismo, vennero arrestati 197 eversori, di questi, soltanto 11 risultavano disoccupati, oltre 70 erano docenti o studenti universitari, poi c’erano 36 operai, 9 casalinghe, 19 impiegati e 5 laureati. Insomma, un’immagine dell’eversione forse un po’ diversa da quella che normalmente uno si fa.
Le origini familiari che importanza hanno nella vicenda di un terrorista?
Credo che non siano determinanti. Nel disorientamento generale degli ultimi dieci-dodici anni è la società che non ha saputo né sorreggere, né proteggere i suoi giovani.
Il ’68 è stato o no una fabbrica di terroristi? Sono molti quelli che provengono dal mondo universitario.
Il ’68 non è stato né una fabbrica né l’unica matrice del terrorismo. È certo che molti docenti universitari provenivano dal ’68 e negli anni successivi alcuni di loro hanno insegnato agli studenti, che accettavano tacitamente e in modo gerarchico, la guerriglia e la rapina. Questo accadeva nelle aule delle università. Quegli insegnanti istigavano alla violenza contro le Istituzioni dello Stato.
La stampa ha delle responsabilità?
Penso di sì, senza voler fare il polemico a tutti i costi. Penso di sì da un punto di vista professionale. Così come un corteo è preceduto da un megafono altrimenti dietro non sentirebbero, altrettanto l’eversore, i gruppi eversivi si propongono di ottenere dalla stampa quella cassa di risonanza che, da soli, per la loro organizzazione logistica e strutturale, non riuscirebbero a ottenere sull’intero territorio del paese.
Perché qualcuno si pente?
Ci sono norme politico-legislative che hanno certamente contribuito molto al pentimento. Ma non dobbiamo dimenticare che sotto un profilo psicologico, tutto nacque con la confessione di Patrizio Peci. E ciò che più stupisce, ciò che più emerge nel pentito, è il riaffiorare di valori che per tanto tempo sembravano compromessi, invece erano stati contenuti. Il rapporto con i pentiti è servito alle forze dell’ordine, alla giustizia, per prevenire molti omicidi, molti ferimenti, molte rapine.
Senta generale, non ne parliamo dal punto di vista processuale, ma psicologico: che differenza c’è tra un Curcio e un Toni Negri?
Beh, Curcio andava, mentre Negri mandava a espropriare, e nello stesso tempo cercava il finanziamento dal Centro nazionale delle ricerche.
Che differenza c’è tra terrorismo di destra e terrorismo di sinistra?
Per me nessuna. Se c’è una differenza è in questo senso: mentre nel terrorismo di destra noi troviamo un retroterra culturale sbiadito, non assimilato, con una pericolosità estemporanea e immediata, in quello di sinistra c’è la presenza, invece, di un filone ideologico, che viene coltivato, insegnato. In questo caso la violenza contro le istituzioni dello Stato è una vera strategia.
Generale Dalla Chiesa lei a 29 anni andò volontario in Sicilia a combattere la mafia: chi è un mafioso?
Un mafioso è uno che lucra per avere prestigio e poi goderne in tutti i settori. Chi lucra è capace di uccidere. Prima di uccidere, intendo assassinio anche come morte civile, è capace di usare espressioni come “paternamente, fraternamente ti consiglio...”.
È vero che per primo segnalò il nome di Luciano Liggio e di tutti gli altri collegati al sistema mafioso?
Io arrivai a Corleone nel 1949, le prime indagini le dedicai ai 74 omicidi a opera di ignoti che mi erano stati consegnati in eredità. Tra questi affrontai anche quello del sindacalista Placido Rizzotto, deceduto anzi scomparso da oltre due anni. Io denunziai per omicidio Liggio, Criscione e Collura alla magistratura di Palermo nel dicembre 1949. Furono assolti per insufficienza di prove. Poi Liggio lo abbiamo ritrovato a capo di organizzazioni mafiose a livello nazionale e internazionale.
È vero che lei a seguito di quelle denunce fu mandato via?
A me non risultò che il rientro fosse determinato da reazioni, come lei vuol far intendere, di carattere politico...
Io non voglio fare intendere niente…
È certo che il filo conduttore del romanzo di Leonardo Sciascia Il giorno della Civetta, può aver tratto motivo da questo episodio.
Lei si identifica nel personaggio del romanzo di Sciascia?
Non le nascondo che mi ha fatto piacere potermi identificare nel capitano Bellodi: tutti e due siamo di Parma, tutti e due partigiani, trentenni, le piazze di Partinico potevano essere le piazze di Corleone, i dialoghi, gli incontri avuti con i capi della mafia, ritratti così brillantemente da Sciascia, sono gli stessi che io avevo avuto a Corleone a cominciare dal dottor Navarra che allora era il capo mafia.
Generale come mai la mafia si rinnova di continuo?
Si parla di mafia e la si esamina dal 1861. Vorrei precisare che non è la mafia che si rinnova, è l’analisi su Cosa Nostra che viene rinnovata in continuazione da parte delle Commissioni parlamentari e non, senza che le varie analisi si traducano in strumenti idonei a garantire a chi opera di poter contenere e reprimere la mafia. Questo ha permesso alla mafia di uscire dall’aia colonica per trasferirsi anche nelle pieghe delle Istituzioni dello Stato.
Perché allora dichiarò: “Il nostro rapporto alla magistratura non aveva avuto fortuna. Noi tuttavia siamo radicati nella nostra convinzione”. Quale convinzione?
Lei si riferisce alla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, quando gli investigatori concentrarono i loro sforzi su un’altra strada. Lo dissi perché se quel nostro rapporto avesse avuto più fortuna molto probabilmente le stesse vite del procuratore della Repubblica di Palermo Scaglione, di un bravo funzionario di Pubblica Sicurezza e di un nostro ufficiale dell’Arma, non sarebbero state compromesse. Tra i primi nomi indicati nel rapporto, c’era quello del boss mafioso Gerlando Alberti che, unitamente ad altri troviamo poi nel famoso “dossier dei 114”. Quasi tutti arrestati contemporaneamente in ogni parte d’Italia, mentre io ero al comando della Legione di Palermo.
Perché è morto Mauro De Mauro?
Secondo me perché aveva appreso molto sui traffici della droga e si riprometteva di fare uno scoop giornalistico.
Per eliminare la mafia c’è qualcosa che si poteva fare e che non è stato fatto?
A cominciare dal sequestro dei profitti che risultano da illecita o dubbia provenienza; indicare per il confino comuni più asettici, soprattutto non prossimi alle grandi città che danno ai mafiosi la possibilità di mimetizzarsi. Sono tutte cose che ho detto, scritto e ribadito già quindici anni fa.
Che rapporti vede tra mafia e politica?
La mafia tende ad arare, a coltivare, a lucrare sulla politica, e quando la politica si lascia coltivare può diventare il tramite, talvolta inconsapevole, tra la mafia e le Istituzioni dello Stato.
Sciascia dice che è l’Italia che si è sicilianizzata, poi c’è chi sostiene che la mafia è un frutto amaro della democrazia, cioè esiste perché ci sono persone che hanno bisogno di voti.
Non ho bisogno di fare il misterioso perché è stato pubblicato nei verbali della Commissione antimafia. Nel 1967 a Caltanissetta dichiarai che già negli anni Cinquanta avevamo visto come la politica veniva condizionata dalla mafia e che successivamente i politici onesti, che volevano rimanere indenni, trovarono enormi difficoltà a liberarsi di una zavorra che li avrebbe perseguitati nel tempo. Dottor Biagi la pregherei di esonerarmi e di non andare avanti su questo tema.
D’accordo generale, cambiamo tema. In un discorso, riferendosi alla battaglia che i carabinieri conducono contro il terrorismo, lei ha accennato “alla lotta con i denti, alla rabbia del resistere, alla gioia di dare, al donare senza chiedere, alla rinuncia per tutta la vita agli affetti più cari”.
Il riferimento è al discorso celebrativo che tenni in occasione della festa dell’Arma. Lei non deve dimenticare che nei mesi precedenti i nostri sottufficiali erano stati barbaramente assassinati. Dopo questi gravissimi eventi non ho avvertito la minima flessione in nessun reparto né tanto meno in quelli direttamente interessati, non ho udito neanche un gemito uscire dalle sale operatorie, e ho assistito alla grande dignità delle vedove. Era doveroso, di fronte a una prova così virile e terrificante, dare un riconoscimento a quegli uomini.
Ci sono stati dei momenti nei quali ha avuto paura?
Sì, più frequentemente di quanto non si pensi. Quando ho dovuto impiegare dei collaboratori che sapevo che andavano a rischiare la vita. Quando sono in ufficio e giunge il suono del telefono allora guardo il Cristo perché non so mai che notizia può arrivare. Per quanto riguarda la mia persona, più rassegnazione che paura.
Generale dicono che una delle sue più spiccate qualità è il segreto. È vero che neppure i suoi figli conoscono il suo numero di telefono diretto?
È proprio così.
Le pesa sapere i rischi che corrono i suoi familiari?
Molto.
Ha dei rimpianti? C’è qualcosa che avrebbe voluto fare e che non ha potuto fare?
Non ho rimpianti. Avrei voluto soltanto che il mio lavoro non venisse a costare molto ai miei affetti.
Quando racconterà la sua vita ai suoi nipotini, che cosa dirà?
Beh, ai bambini si raccontano le favole, le belle favole. E le racconterò anch’io ai miei nipotini. Ma se si riferisce alla mia vita, io penso che la mia vita non sia stata una favola. E se è, come è, una esperienza duramente vissuta, ambisco solo a raccontarla ai giovani della mia Arma.
Grazie Generale Dalla Chiesa.
Abbiamo finito questa dolorosissima operazione? Grazie a lei dottor Biagi.