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 2013  luglio 30 Martedì calendario

1962 CILE – CRONACA DELLA BATTAGLIA DI SANTIAGO


Vittorio Notarnicola, L’Europeo 1962 – N. 23

A UN CERTO PUNTO, LE 15 O 20 EMITTENTI radio del Cile, da Santiago a Valparaíso ad Arica, cominciarono a parlare di Caporetto, del colpo di pugnale alla Francia, dell’8 settembre. Era evidente l’intenzione di augurare all’Italia un’altra umiliante congiuntura storica. E poiché, una volta tanto, non era in guerra, in mancanza di peggio l’Italia avrebbe dovuto perdere rovinosamente il Campionato mondiale di calcio. Subito.
Le trasmissioni radio nel Cile sono assai più determinanti della stampa per creare uno stato d’animo. Gli analfabeti, a quanto pare, sono moltissimi e s’informano sugli avvenimenti, vicini o lontani che siano, ascoltando appunto i bollettini messi in onda dalle stazioni radio, ciascuna delle quali fa capo a un partito oppure a un gruppo finanziatore. Con i bollettini, e soprattutto con i commenti alle notizie, è dunque possibile influenzare in modo determinante l’opinione pubblica. Il Mondiale, atteso come uno strumento di propaganda turistica, era diventato improvvisamente un motivo per aprire con molto anticipo la campagna per le elezioni del 1964. Il Fronte popolare, formato da due partiti socialisti e dal Partito comunista, era andato all’attacco del governo di Jorge Alessandri Rodriguez (1896-1986; in carica dal 1958 al 1964, ndr) sostenuto da una coalizione liberale-radicale-conservatrice-cattolica, rinfacciando tutto ciò che nel Sud America e in altre aree semidepresse si può rinfacciare a qualunque governo in carica. La destra aveva ribattuto subito e mirato l’ovvio bersaglio dell’orgoglio nazionalista della popolazione. E la popolazione s’era immediatamente convinta che nel Cile tutto era ricco, bello, giusto, bene amministrato, felice.
Il Paese quindi era stato colpito a tradimento da infami calunnie dei giornalisti italiani scritte pochi giorni prima dell’inizio del torneo (Antonio Ghirelli sul Corriere della Sera aveva redatto alcuni articoli di colore e Corrado Pizzinelli su Il Resto del Carlino aveva definito il Cile «uno dei Paesi sottosviluppati del mondo e afflitto da tutti i mali possibili: denutrizione, prostituzione, analfabetismo, alcolismo, miseria...», ndr). Non è stato un buon momento per noi, in genere. Per gli italiani non c’era altro che antipatia; più che antipatia, odio. Inutilmente s’era fatto notare che i calciatori non avevano nulla in comune con la stampa, che anzi i giornalisti erano stati duri anche con i calciatori. Inutilmente i notabili della colonia italiana, preoccupati per le vetrine dei loro negozi, per le prenotazioni nei loro alberghi, s’erano affrettati, pubblicamente, a distinguersi dai presunti diffamatori. Inutilmente qualcuno mandava ai direttori dei giornali cileni ritagli di articoli encomiastici pubblicati in Italia.

IL PREFETTO DI POLIZIA TEMEVA GUAI. PER giorni e giorni i carabineros furono messi prudentemente di guardia davanti alle librerie dove si vende la stampa italiana. Altri carabineros sorvegliarono botteghe, uffici ed ebbero occhi non distratti anche per gli alloggi dei giornalisti. I due ragazzi che mi trasportarono le valigie lungo otto quadros (otto blocchi di palazzi, circa 800 metri) dell’Esquina Estado, inseguendo la speranza d’una camera e d’un letto migliori, m’hanno detto che erano già stati a fischiare la squadra italiana nelle due prime partite, contro la Germania Ovest e contro il Cile, e che l’avrebbero fischiata di nuovo nella partita contro la Svizzera. Un commerciante italiano residente nel Venezuela, arrivato a Santiago per vedere il Mondiale, e ottenuta agevolmente la compagnia di una entraîneuse al tavolo d’un night, vide la donna alzarsi e andarsene fieramente quando le ebbe detto che lui era nato a Busto Arsizio, provincia di Varese, Italia.
Per la verità, i malumori serpeggiavano anche fra i cileni. Il settimanale Vistazo denunciava uno scandalo nella costruzione dello stadio di Arica, il porto settentrionale del Cile, 200 milioni di lire svaniti e in pericolo per un intrallazzo di tondini di ferro non comprati e non messi in opera, per cui lo stadio minacciava di crollare. Si diceva anche che bisognasse piantarla con i dépliant pubblicitari, stampati perché qualcuno ci guadagnasse sopra, e che il Campionato del mondo avesse fatto raddoppiare i prezzi anche per i cileni. In molti alberghi le camere vuote aumentavano e l’agenzia che le aveva requisite praticamente tutte per riaffittarle in proprio a tariffe maggiorate aveva ormai messo in preventivo di chiudere l’affare in pesante passivo.
Persino lo stadio di Santiago, molto bello, razionale, ben servito, non s’era riempito il giorno dell’inaugurazione, Cile contro Svizzera; l’esaurito non si era avuto nemmeno per la prima tremenda fischiata all’Italia (contro la Germania Ovest, ndr) e s’era dovuto attendere fino a sabato 2 giugno per la sfida all’ultimo sangue fra i cileni e gli italiani. In fondo il risentimento, la rottura fra Santiago e Roma hanno funzionato, sono stati un diversivo perfetto per superare la delusione per l’assenza quasi totale del turismo sudamericano che avrebbe dovuto portare molti soldi e non li ha portati. L’incredibile polemica è servita a tutto questo, così come ha dato modo alla concentrazione governativa di misurarsi con il Fronte popolare e di batterlo. E il Mondiale, in un certo senso, ha preso per noi la tinta della guerra.
Bisogna dire che a questo i calciatori italiani non erano preparati. La Commissione azzurra è affidata, per intero, al commendatore Paolo Mazza, ferrarese, grossista di elettrodomestici. Lo sport crea ogni tanto dei miti: e Paolo Mazza impersona il mito del talent scout, del mercante di calciatori non troppo ricco, ma avvedutissimo. È quello che rileva per una miseria i calciatori falliti nei grandi club, li rivaluta, li rivende. È quello che prende un calciatore semidilettante e, in una stagione, ne fa o tenta di farne un “pezzo” da cento milioni. Mazza ha mancato soprattutto come psicologo, non ha capito e non si è fatto capire dai calciatori, si è perduto nella confusione di troppi suggerimenti storici e filosofici sul gioco del calcio ed è stato penosamente incerto nel reagire alle pressioni dei calciatori “capicellula”.
La partita contro il Cile meritava uno studio più esatto, una più esatta valutazione dell’ambiente e delle circostanze. Studio e valutazione che si dovevano fare con opportunismo, nonché con senso dell’umorismo. Era sicuro ormai che i nostri calciatori sarebbero stati aggrediti, oppure provocati ad aggredire. I cileni avevano una sola chance: trovarsi in vantaggio numerico. Questo si doveva dire alla nostra Nazionale e non è stato detto. I nostri calciatori non hanno neppure saputo direttamente chi di loro avrebbe giocato contro il Cile. Sabato mattina, prima del match contro il Cile, erano tutti nella sala del biliardo quando è arrivato il massaggiatore, un omone biondo. Ha detto 11 nomi e aggiunto soltanto: «Voi mangiate subito». I calciatori anticipano sempre la colazione quando devono giocare. Le parole del massaggiatore volevano allora dire che quegli 11 erano i prescelti per la partita contro il Cile. Va bene che non è più il caso di osservare il famoso rituale di Vittorio Pozzo che faceva baciare la maglia azzurra, ma qualcosa si poteva, si doveva pure spiegare a Carlo Mattrel (il portiere, ndr) e ai suoi compagni. Oltre alla tattica. Tanto più che fra i campioni scelti per l’incontro ce ne erano alcuni emotivi e pericolosi, come Mario David, Bruno Mora; già puniti in Italia, più d’una volta, con squalifiche.
Il piano cileno prevedeva il sacrificio dell’ala sinistra Leonel Sánchez. Sánchez, che aveva vinto la partita contro la Svizzera, è un “semischizofrenico”, va avanti a quarti di luna. Contro l’Italia, probabilmente, non avrebbe concesso il bis. Dunque era stato meglio dirgli di fare il guastatore. E il guastatore Sánchez ha assolto perfettamente il suo dovere. Ha menato e poi fatto saltare i fragilissimi nervi dei calciatori italiani. Ha sputato subito sulla maglia di David, poi ha sputato in faccia a David e David ha risposto con un calcio. Poco dopo Sánchez ha rotto il naso al capitano italiano Humberto Dionisio Maschio. L’arbitro inglese Kenneth Aston, altissimo, magro, e due guardialinee, ridicolmente bassi, con le gambe storte, continuavano a rigirare i calciatori caduti a terra per vedere il numero sulla schiena e stabilire chi fossero. Contavano i morti e i feriti di quella stolta battaglia. Risultato: mentre il guastatore Sánchez, votato dai suoi dirigenti a cadere sul campo, rimaneva in piedi, i calciatori italiani cadevano a uno a uno: due cacciati dall’arbitro e trascinati via come malfattori dai carabineros, Maschio sfigurato, quasi tutti gli altri graffiati e pestati. Ma più grave ancora fu il comportamento del pubblico, che diede prova di cattiva educazione, di isterismo e di ottusità. È stata però colpa nostra avere accettato questa specie di duello rusticano.

LO STESSO SPETTACOLO, CON DIVERSI protagonisti, andava in scena a Rancagua, a Viña del Mar, ad Arica (le altre sedi del Mondiale, ndr). La formula era uguale: violenza fino a sfiorare, a tratti, il tentativo d’omicidio. I calciatori feriti o contusi fra il primo e il terzo assalto sono stati circa 50; dei feriti, alcuni dovranno portare apparecchi di gesso per mesi. Il professionismo dei calciatori poteva essere il presupposto di molti patti di non aggressione. La solidarietà di categoria è, invece, mancata. I dilettanti dell’Est hanno dato alle loro manifestazioni truculente quasi un’ispirazione mistico-ideologica: i cecoslovacchi, combattendo contro gli spagnoli franchisti, e contro Ferenc Puskás (giocò nella nazionale spagnola tra 1961 e 1962, ndr) ribelle antisovietico a Budapest, hanno liquidato cinque avversari. Gli argentini hanno infierito sui bulgari al punto da scuotere anche l’indifferenza degli inglesi: Jimmy Greaves, il profugo dall’Italia (nel 1961 giocò nel Milan per poi tornare in Inghilterra, ndr), aveva annunciato che per gli inglesi sarebbe stato impossibile giocare al football contro una banda di seviziatori come quella argentina.
Dopo la partita con l’Italia, i carabineros, con i dobermann e i pastori tedeschi al guinzaglio, continuarono a pattugliare le vie che si dipartono dallo stadio, ma non ce n’era bisogno. La guerra era finita. Jorge Toro, tarchiato, villoso, con le gambe storte, Honorino Landa, il centrattacco che tira quando sembra sul punto di cadere, Alberto Fouilloux, bel ragazzo, laureato all’Università cattolica di Santiago, unico “aristocratico” della Nazionale cilena, Leonel Sánchez, il matto che aveva fatto saltare i nervi al nostro terzino David, un poco tutti facevano il bilancio. Sarebbe venuto qualche impresario italiano o spagnolo o argentino per portarseli via? Il contratto, alla fine; il contratto era l’unica cosa che valeva. Quello che resta e che importa è il danaro, e non è poco.