http://www.essereliberi.it/modello_articolo.php?id_artic=162, 14 maggio 2010
Valerio e il "giallo" dell’Inno di Mameli Di Aldo A. Mola L’articolo che segue trae origine da un convegno su Lorenzo Valerio (1810-1865), uomo politico, giornalista e scrittore che fu tra i capi del movimento liberale piemontese durante il Risorgimento e nella cui casa in Via XX Settembre 68 a Torino ebbe battesimo l’inno di Mameli, come testimoniato da una lapide apposta su quella casa per iniziativa del Liceo Cavour nel 1927, a cento anni dalla nascita del poeta "In questa casa che fu di Lorenzo Valerio, una sera sul 10 novembre 1847 il maestro Michele Novaro divinava le note al fatidico Inno di Mameli"
Valerio e il "giallo" dell’Inno di Mameli Di Aldo A. Mola L’articolo che segue trae origine da un convegno su Lorenzo Valerio (1810-1865), uomo politico, giornalista e scrittore che fu tra i capi del movimento liberale piemontese durante il Risorgimento e nella cui casa in Via XX Settembre 68 a Torino ebbe battesimo l’inno di Mameli, come testimoniato da una lapide apposta su quella casa per iniziativa del Liceo Cavour nel 1927, a cento anni dalla nascita del poeta "In questa casa che fu di Lorenzo Valerio, una sera sul 10 novembre 1847 il maestro Michele Novaro divinava le note al fatidico Inno di Mameli". Ecco la risposta del Prof. Aldo A. Mola. *********** Vittorio G. Cardinali, prendendo spunto dal convegno torinese su Lorenzo Valerio, ripete che autore del Canto nazionale o «degli Italiani» sarebbe il «ventenne studente e patriota Goffredo Mameli». Si tratta di una pietosa leggenda. Stabilire la vera paternità di quel testo è urgente, perché dal 19 settembre 2002 giace il progetto di legge n.3170 dei deputati Agostino Ghiglia e altri per far riconoscere il cosiddetto «Inno di Mameli», adottato in via provvisoria il 12 ottobre 1946, come inno ufficiale della Nazione (in realtà si dovrebbe dire «dello Stato»). Di esso si sa per certo che fu musicato dal genovese Michele Novaro. Come per tutti i canti analoghi dovrebbe dunque essere ricordato come «inno di Novaro». Ma questo è un dettaglio. Occorre invece domandarsi se autore del testo sia davvero Goffredo Mameli. Orbene, chiunque abbia la pazienza di scorrerlo constata che esso risponde ai sentimenti di una persona adulta, di alto sentire religioso, che si rivolge ai lettori con spirito paterno : «Uniamoci, amiamoci, /l’Unione, l’amore/ rivelano ai popoli / le vie del Signore:...». Quel testo, inoltre, fa riferimento preciso ed esclusivo a fatti storici della primavera-autunno 1846 e non del 1847, quando, secondo esso venne inviato a Torino. Parla infatti della repressione dei Polacchi attuata da un corpo di spedizione austriaco, che mise fine alla indipendenza della città di Cracovia (tema caro al clero cattolico) e del congresso degli scienziati, che ebbe luogo a Genova nel settembre 1846 e dette occasione alla rivalutazione di Balilla quale anticipatore del Risorgimento (un’abile manipolazione della storia, giacché, in realtà Balilla incitò i genovesi contro gli austriaci, in quel momento alleati del Regno di Sardegna contro i "gallo-ispani"). I riferimenti al mitico Francesco Ferrucci e alla lotta dei «Liberi Comuni» contro il Barbarossa riecheggiano la linea federale ispirata da Vincenzo Gioberti, non già a quella democratico-mazziniana che fu poi di Lorenzo Valerio e di quanti «lanciarono» il cosiddetto «inno di Mameli». Quest’ultimo, infine, non contiene alcun cenno a Carlo Alberto, alla monarchia sabauda: ed è per questa ragione che la Repubblica lo fece proprio. Tutto ciò detto torniamo alla domanda: lo scrisse Goffredo Mameli? Per rispondere basta confrontarlo con gli altri suoi scritti pubblicati nel 1927 a cura di Arturo Codignola: versi faticosi, eco stanca di frasario corrente. «Fratelli d’Italia» è invece altra cosa, a cominciare dal verso: senari, un metro difficile da dominare. Il suo vero autore è il padre scolopio Atanasio Canata, docente al collegio calasanziano di Carcare, ove studiò il fratello di Goffredo, Giovanni Battista, e dove padre Aimeri (che lo aveva in cura) lo condusse da Genova nel settembre 1846, come narrò in una lettera a padre Muraglia. All’epoca Goffredo era sgrammaticato e torpido come emerge dalle lettere all’amico Michel Giuseppe Canale e alla madre, cui il 15 ottobre 1847 scriveva da Novi Ligure: «Io qui me la passo benissimo, mangio per quattro dormo molto, non faccio nulla, penso meno, e questo è l’ideale del mio Paradiso, credo che voialtri farete altrettanto». Erano proprio i giorni nei quali, secondo la pietosa leggenda, egli avrebbe scritto il «Canto nazionale». Il suo vero Autore, padre Canata, aveva alle spalle una produzione letteraria immensa, poi data alle stampe in cinque volumi. Tra le sue poesie - anche in senari - ritroviamo temi e toni del «Canto nazionale» e una famosa «invettiva»: «Meditai robusto un canto/ ma venali menestrelli / mi rapian dell’arpa il vanto...». Denunciò, cioè, la sottrazione del frutto del suo genio poetico da parte di una «gazza garrula e ladra». Perché non fece il nome di Goffredo? Semplice. Come è noto, Mameli accorse a Roma dopo la proclamazione della caduta del potere temporale e l’instaurazione della repubblica. Lì venne ferito da un commilitone, come egli stesso scrisse alla madre. Venne curato male. Dovette subire l’amputazione della gamba. E morì quando ormai la Città Eterna era caduta nelle mani dei francesi. Ad assisterlo sul letto di morte fu padre Ameri, nel frattempo divenuto il vicario generale degli scolopi. Sennonché attorno a Mameli crebbe la leggenda. Qualcuno scrisse persino che era stato iniziato alla massoneria in una mai documentata loggia romana. Se ne fece il campione di una realtà che non era sua. Inno compreso. Da buon sacerdote, padre Canata si limitò quindi a denunziare l’errore, non l’errante. Dal canto suo il primo biografo di Mameli, Anton Giulio Barrili occultò la visita di Goffredo a Carcare (ora documentatissima) per non mettere nessuno sulla traccia del vero autore dell’inno che a Mameli dette fama immortale (anche ai danni di Michele Novaro, senza la cui musica il testo sarebbe rimasto una tra le tante poesie dotte, e anche un po’ difficile da memorizzare, come tutti sanno, proprio per la sua densità concettuale). Gli storici di maniera fecero il resto. Un fatto però resta: il raffronto tra «Fratelli d’Italia» e i mezzi linguistici di cui Goffredo disponeva nel 1846-47 ci dice che esso è di un’altra mano, molto più matura e culturalmente solida. Del resto Ulisse Borzino, che recò quel testo a Michele Novaro in casa Valerio non disse «è di Mameli» sebbene: «Te lo manda Mameli». Goffredo lo aveva fra le sue carte; ma non era affatto suo. Tutto ciò non diminuisce il rispetto che si deve al povero ventunenne morto per la ferita causatagli da «ferro amico», né per il contenuto stesso dell’inno: che è espressione del sostegno del clero alla unione e alla fratellanza (non all’unificazione o a un regno unitario) dall’ascesa di Pio IX all’allocuzione del 29 aprile 1848, con la quale il papa condannò la guerra contro l’Austria e invitò alla pace. La vicenda dell’inno nazionale è dunque più complessa di come appare dalla proposta di legge Ghiglia e da come narra la lapide murata in via XX settembre 68 a Torino. Dal Giornale Del Piemonte del 29 febbraio 2004