Enrico Franceschini e Guido Rampoldi, la Repubblica 24/12/2009, 24 dicembre 2009
Kabul 1979, le carte segrete di Guido Rampoldi e Enrico Franceschini per Repubbica. 1. di Enrico Franceschini - «Sarebbe necessariamente contro i nostri interessi che i russi rafforzassero l’attuale regime socialista in Afghanistan? L’alternativa potrebbe essere un regime islamico reazionario del tipo che ci sta dando problemi altrove»
Kabul 1979, le carte segrete di Guido Rampoldi e Enrico Franceschini per Repubbica. 1. di Enrico Franceschini - «Sarebbe necessariamente contro i nostri interessi che i russi rafforzassero l’attuale regime socialista in Afghanistan? L’alternativa potrebbe essere un regime islamico reazionario del tipo che ci sta dando problemi altrove». Tre righe battute a macchina, in un messaggio «confidenziale» del Foreign Office britannico, datato 28 novembre 1979, contengono un presagio dei successivi trent’anni di storia: dapprima la vittoria dei mujaheddin a Kabul, quindi l’ascesa al potere dei Taliban, la loro sponsorizzazione di Osama bin Laden, di Al Qaeda e del terrorismo islamico, infine la destabilizzazione del Pakistan e di un’intera regione. Ma quella passeggera visione non turba i sonni dei diplomatici di Sua Maestà, né dei loro alleati americani. Primo, perché a Londra e a Washington l’opinione dominante è che Mosca non invaderà l’Afghanistan. Secondo, perché la Guerra fredda, pur attutita dalla distensione, continua, e la priorità è limitare l’influenza sovietica, strumentalizzare le mosse del Cremlino, danneggiare gli interessi della superpotenza comunista. L’invasione invece comincia, la notte di Natale, tra il 24 e il 25 dicembre 1979. Trent’anni dopo, documenti top secret dell’allora governo guidato da Margaret Thatcher, declassificati nei giorni scorsi e consultati da Repubblica negli archivi di Stato britannici a Kew Gardens, illustrano l’ingenuità e al tempo stesso il cinismo della diplomazia occidentale davanti a un nuovo atto del Great Game, il Grande Gioco, come lo chiamavano ambasciatori e spie, la rivalità strategica e il conflitto tra l’Impero britannico e quello russo, e quindi tra i loro successori de Novecento, Usa e Urss, per la supremazia in Asia centrale. Nessuna delle due parti, in quei fatali giorni del dicembre ’79, poteva immaginare che la decisione di invadere avrebbe fatto crollare tutto ciò che fino ad allora era apparso inamovibile: la caduta del Muro di Berlino, il collasso dell’Unione Sovietica, la fine del comunismo, in fondo nascono da lì. Dopo la fine della monarchia nel 1973 e una serie di colpi di Stato, il Partito comunista afgano sale al potere con la rivoluzione del 1978 e tenta di introdurre una serie di riforme di stampo sovietico con l’appoggio di Mosca. Una popolazione profondamente immersa nel tribalismo, nella tradizione e nell’Islam reagisce con la rivolta. E la situazione precipita nel settembre del 1979, quando il primo ministro Hafizullah Amin si proclama presidente con un cruento golpe di palazzo in cui viene ucciso il suo predecessore. È in simili circostanze che Mosca considera l’ipotesi di un’invasione, per liberarsi di Amin, insediare un governo afgano sotto il suo diretto controllo e aiutarlo a stroncare la ribellione. Ma per valutare le reazioni dell’Occidente occorre tener conto anche di quanto accade altrove: nel febbraio del ’79 l’ayatollah Khomeini torna a Teheran e la rivoluzione islamica trasforma l’Iran da alleato fedele in nemico giurato dell’America. Il 4 novembre di quell’anno, gruppi di studenti islamici assaltano l’ambasciata americana a Teheran e prendono in ostaggio decine di diplomatici Usa. Per Washington comincia l’incubo che condurrà, nel giro di un anno, alla sconfitta elettorale di Jimmy Carter e alla elezione di Reagan. E intanto, a Londra, un premier donna e conservatrice, Margaret Thatcher, si è installata da poco a Downing Street, dove guadagnerà il soprannome di «lady di ferro». Il 23 novembre 1979, un documento del Foreign and Commonwealth Office, il ministero degli Esteri britannico, con la dicitura «segreto», scritto da G. R. Archer del South Asian Department, fa due notazioni che si riveleranno presto errate: «Un’invasione sovietica dell’Afghanistan è improbabile» e «gli interessi occidentali sono scarsamente influenzati direttamente da quanto accade in Afghanistan». La convinzione britannica che l’Urss non invierà le sue truppe a Kabul (al di là di alcune centinaia di consiglieri militari che già vi sono arrivati) appare influenzata da quel che dicono gli americani, secondo i quali «i russi non interverranno in Afghanistan a causa dei negoziati per la ratifica del Salt II», come osserva un altro documento, vergato un paio di settimane prima, l’8 novembre, da L. G. Mallaby dell’Eastern Europe & Soviet Department. Il timore di un fallimento delle trattative con gli Stati Uniti sul nuovo trattato per la limitazione delle armi nucleari dovrebbe indurre Mosca alla prudenza: questo pensano in sostanza i diplomatici britannici. Un altro memorandum, catalogato «confidenziale», firmato da M. E. Howell il 28 novembre, dice tre cose. Uno: «Concordo che dovremmo sfruttare qualsiasi invasione russa ai massimi fini di propaganda nel Terzo Mondo». Un concetto, questo, ripetuto in numerosi telegrammi e missive interne del ministero degli Esteri: se l’Urss invadesse, l’Occidente avrebbe un’arma propagandistica per screditarla agli occhi dei Paesi in via di sviluppo e in particolare dei non allineati, come l’India, di cui Mosca si professa amica. Ma il secondo concetto espresso dal memorandum contraddice il primo: «Tuttavia un’invasione è improbabile, perché è verosimile che diventerà necessaria». Lo scenario più probabile, per Londra, è una «graduale riduzione dell’insurrezione, apatia nel giro di due-tre anni, con gli afgani, abituati a sopportare regimi spregevoli, che ricadono in occasionali sommosse», continua Howell, convinto che Mosca possa sedare la rivolta ed esercitare un controllo sul governo del nuovo presidente afgano Amin, senza bisogno di inviare truppe e carri armati. È a questo punto che il medesimo diplomatico si domanda: siamo sicuri che un rafforzamento del regime socialista afgano, ottenuto dall’Urss con una pressione dall’esterno o con l’invasione, sarebbe contrario agli interessi dell’Occidente? L’alternativa, l’avvento di un regime islamico radicale, potrebbe risultare ben peggiore, ammonisce Howell, provocando problemi del tipo che si sono visti «altrove»: evidente allusione alla rivoluzione islamica in Iran. «Con un regime socialista alleato di Mosca possiamo lavorare», conclude il suo memorandum, lasciando intendere che viceversa una seconda rivoluzione islamica in Asia centrale aprirebbe scenari incontrollabili. Arher, il responsabile del South Asian Department, fa un’affermazione analoga nel documento del 23 novembre: «Gli interessi occidentali sarebbero probabilemente meglio serviti dalla creazione di un governo stabile (a Kabul), che abbia buone relazioni con l’Unione Sovietica senza diventare niente di più che un satellite di Mosca. Un governo stabile, capace di tenere a freno i capi tribù potrebbe essere la speranza migliore che il germento non si diffonda nelle adiancenti regioni del Pakistan». Così non avviene. La notte di Natale, l’Urss invade. Il 28 dicembre, Carter telefona alla Thatcher per dirle che giudica «l’intervento sovietico in Afghanistan come uno sviluppo estremamente grave, con profonde conseguenze strategiche sulla stabilità dell’intera regione»: è essenziale, aggiunge il presidente americano, secondo gli appunti della conversazione telefonica presi da Downing Street e visionati dal nostro giornale, «rendere questa azione il più politicamente costosa possibile per l’Unione Sovietica». Il costo, alla fine, andrà olre ogni aspettativa: le truppe di Mosca si ritireranno dopo dieci anni di guerra, con un bilancio di 14 mila morti e 50 mila feriti tra le forze sovietiche e un milione di morti tra gli afgani. Sarà la prima sconfitta militare per l’Urss e l’inizio della fine per il Paese dei Soviet. Molti anni dopo, Zbigniew Brzezinski, all’epoca consigliere per la sicurezza nazionale di Carter, ha rivelato nella sue memorie che gli aiuti americani ai mujaheddin iniziarono in realtà prima dell’invasione sovietica, e non dopom con l’intento di attirare Mosca in una trappola: «Non spingemmo i russi ad intervenire, ma incrementammo consapevolemente la probabilità che lo facessero. Il gioco in cui le truppe sovietiche entrarono in Afghanistan, scrissi a Carter che avevamo finalmente l’opportunità di dare all’Urss il suo Vietnam». Senonché, il Vietnam sovietivo e il crollo dell’Urss non furono l’unica conseguenza. Ce ne sono state altre, a cominciare da quel «fenomeno» temuto dalla diplomazia britannica: il radicalismo islamico, lungi dall’estinguersi in Asghanistan, come sperava il Foreign Office, ha contagiato anche il Pakistan. Il paradosso di questa lunga storia è che l’uomo della Cia autore dei primi aiuti clandestini ai mujaheddin afghani è lo stesso che oggi sta disperatamente cercando di spegnere il fermento islamico in Afghanistan e in Pakistan: Robert Gates, il segretario della Difesa americano. relativamente semplice iniziarlo, il Grande Gioco, ma è maledettamente difficile prevedere come finisca. 2. Così per combattere l’Urss l’Occidente finanziò la Jihad di Guido Rampoldi - Può capitare, e capita sovente, che la somma di un poderoso servizio segreto e di una sapiente diplomazia sia un colossale malinteso. I britannici ritenevano, e ritengono, di conoscere l’Afghanistan più di chiunque altro. Ma nel 1979 non sapevano abbastanza dei frequentatori del Cremlino, perché non capirono, come scopriamo ora da documenti appena declassificati, che i sovietivi avrebbero mandato l’Armata Rossa a Kabul. Qualche anno prima la Cia e l’MI6 britannico avevano escluso che in Iran lo Scià sarebbe stato cacciato da una rivoluzione. Qualche anno dopo la Cia e il dipartimento di Stato si convinsero che Saddam non avrebbe invaso il Kuwait, così come l’ambasciatrice americana a Baghdad riteneva di aver appreso dallo stesso dittatore iracheno. Poiché l´americano e il britannico sono due tra i migliori servizi segreti del mondo, ci si potrebbe domandare se gli spionaggi valgano davvero le somme rilevantissime che costano. Tuttavia nel caso afgano l´inaccuratezza della previsione (i russi non entreranno in Afghanistan) fu tutto sommato un errore minore al confronto di un errore strategico che chiama in causa responsabilità più ampie di quante ne spettino al mondo delle spie. Quarant´anni fa a Washington e a Londra prevaleva la convinzione che la Guerra fredda fosse più che mai aperta ad ogni esito. Le destre americana e britannica erano addirittura convinte che l´Unione Sovietica stesse vincendo. L´invasione dell´Afghanistan sembrò offrire conferme a quel pessimismo, nella sua versione smodata riassunto così da Nixon nelle sue memorie (The Real War, 1980): «La posizione degli Stati Uniti di fronte all´Unione Sovietica è peggiorata in modo serio, e il pericolo per l´Occidente è aumentato fortemente. La nostra lotta con l´Urss sarà l´evento centrale per il resto di questo secolo. Ora l´Occidente è posto di fronte al rischio di scivolare in una situazione in cui potremmo essere costretti a scegliere tra la resa e il suicidio». Red or dead, morti o rossi. Largamente condivisa dai media e quantomeno non contrastata dalle accademie, la percezione pessimista indusse la Gran Bretagna della Thatcher e gli Stati Uniti, dove nel frattempo Reagan era succeduto a Carter, ad una strategia di portata storica: direttamente o attraverso l´Arabia Saudita, l´Occidente avrebbe potenziato il fondamentalismo islamico, per usarlo come un´arma contro l´Unione Sovietica e i suoi alleati musulmani. A partire dagli anni Ottanta poderose iniezioni di petrodollari gonfiarono i muscoli di islamismi a quel tempo deboli e scarsamente pericolosi, da Gaza a Lahore. E cambiarono la fisionomia di varie società musulmane. Il Pakistan, che ancora dieci anni prima appariva la Terra promessa della Riforma islamica, divenne non solo la retrovia della guerra contro l´Armata Rossa in Afghanistan, ma anche un avamposto della Controriforma ispirata dai sauditi. Complice il dittatore Zia ul-Haq, il fondamentalismo più aggressivo moltiplicò le sue scuole coraniche, accrebbe a dismisura la sua influenza e divenne parte del sistema militare pachistano, con il quale gestiva le "fabbriche di mujahiddin", i campi profughi dove sin da giovanissimi i rifugiati afgani venivano iniziati alla guerra santa sui testi stampati in Arabia Saudita ed elaborati nell´università di Omaha, Nebraska. Quel pervasivo jihadismo scolastico («Se ci sono dieci senza-dio e un musulmano ne uccide cinque, quanti ne restano?», domandava un esercizio di aritmetica) non è estraneo al risultato di un esperimento condotto nel 1999 in un campo profughi pachistano: richiesti di raffigurare il loro futuro, tranne uno tutti gli alunni di una classe disegnarono guerrieri. Ma quanto erano giustificati la paura che incuteva l´Unione Sovietica e il ricorso a quei rimedi estremi? All´interno dell´establishment americano un pensiero eterodosso tentò di contrastare il senso comune con una tesi fondata su dati economici: non solo il blocco comunista non era in fase espansiva, ma, al contrario, si stava disfacendo. Per usare le parole del più autorevole tra quegli eretici, Daniel Patrick Moyniham, in seguito ambasciatore americano all´Onu, Washington combatteva una guerra che aveva già vinto. «L´Urss è nei guai, una società malata», spiegava Moyniham nel 1980. «Gli indicatori di stagnazione economica e perfino di declino sono straordinari. Gli indici di disordine sociale, o più esattamente di patologia sociale, sono ancora più drammatici. [Di conseguenza] la nostra strategia dovrebbe essere di attendere che il tempo faccia il suo corso, giacché il tempo dell´Urss sta passando». L´intelligence, notò Moyniham, avrebbe potuto arrivare alla stessa conclusione se semplicemente avesse dato retta ai disertori del Kgb e dell´Armata Rossa: raccontavano di un sistema al collasso. Invece nessuno ascoltò. O se si preferisce, prevalse una visione ideologica ossessionata dall´incombere del "nemico rosso". Dieci anni dopo l´invasione il blocco orientale si disintegrò. Altri trenta anni più tardi, gli occidentali, incalzati dai guerrieri che essi stessi iniziarono alla jihad, ripongono le loro speranze di districarsi con successo soprattutto sull´esercito afgano, i cui ufficiali provengono per il 60 per cento dall´esercito comunista addestrato dai sovietici.